È passato un anno. Proprio oggi, 5 giugno, esattamente un anno fa, esattamente a quest’ora mi trovavo in uno scomodo letto del reparto di neurochirurgia in una scomoda posizione (non ti devi muovere finché non sarai operata, cerca di respirare e basta). Cavolo sembra ieri. Eppure sono passati 365 giorni, non sono mica pochi. E non sono certo stati giorni facili. Due interventi, inframezzati da un’ombrellata nel viso, direi che non mi sono annoiata.
Fare i bilanci non è una cosa utile, ma in queste situazioni viene spontaneo soffermarsi un attimo e guardare indietro, per dare un’occhiata alla strada percorsa: il mio è stato un cammino piuttosto accidentato, pieno di buche, sassi, improvvise salite e qualche burrone. Tante volte mi sono chiesta qual era, e se c’era, un messaggio dietro a quello che mi stava capitando.
C’ho pensato a lungo, e una risposta non riesco proprio a darmela. E se fosse solo il caso, se i significati reconditi, le morali, gli insegnamenti, i moniti e tutta quella roba lì non c’entrasse affatto, anzi non esistesse proprio? Ci sta. Che cosa cambierebbe in fondo? Tanto quando ti capita una cosa del genere l’unica è respirare, e prenderla con la migliore filosofia possibile.
Spesso gli amici mi hanno chiesto come facevo a “prenderla così bene”, be’ che altro avrei potuto fare? A prenderla male si è sempre in tempo, uno; due non serve a nulla. Non serve a farsi coraggio sapendo che la strada che ti aspetta è tutta in salita e occorre solo tanta pazienza. Non serve prendersela con il destino, che ha fatto capitare “proprio a te” una cosa simile. Poteva andare peggio ecco. Che sembra una cosa banale, detta tanto per dire. No, io l’ho pensato seriamente, che non essere rimasta su una sedia a rotelle è stata una gran botta di culo. E ho cercato di vederla così, una gran botta di culo appunto. Perché le cose cambiano, a seconda del punto di vista da cui le osservi. Non dico che da bianche possono diventare nere, certo rompersi due vertebre e sapere che ti toccano ben due interventi neurochirurgici è dura definirla una botta di culo, eppure… eppure lo è stata. A modo suo.
E comunque sono qui, sono io, ce l’ho fatta, sono di nuovo in piedi. Con una cicatrice di 25 centimetri nella schiena che prima non c’era, ma anche quella è un fiore in più, raccolto sulla mia strada che adorna la bellezza della vita. Sì la bellezza, perché anche se non c’è nulla di bello nel dolore, di sicuro insegna. E fa compagnia. A me ne ha fatta tanta, facendomi conoscere aspetti di me che mi erano ignoti. O forse me li sono inventati, sono usciti fuori senza che nemmeno io me lo aspettassi. E ne sono orgogliosa, mi piacciono, me li sono provati e mi stanno bene addosso. Ci sto comoda, mi fanno sentire esattamente quello che vorrei essere, in pace con me stessa e con quello che non avrei creduto di poter diventare.
Non me li voglio togliere più.
Foto di Cristina del Veneziano, Prato degli Escoli, Tenuta di San Rossore, Pisa