“C’è una milonga sabato sera alla stazione Leopolda, andiamo!”. Così i nostri maestri, Katy e Claudio hanno spinto gli allievi, perfino i più che neofiti come me, a partecipare alla prima, vera, serata di tango.
Pur avendo alle spalle solo cinque lezioni di tango accetto. Sono poche, cinque lezioni, ma non importa: troppa la curiosità, l’attrazione, il fascino verso questo ballo che da tanti anni mi “mirava” e che finalmente mi ha inviato a ballare, proprio come si fa nelle milonghe.
Perché ci sono regole, consuetudini, precise, nelle milonghe: ce le spiega con la sua eleganza ed esperienza Katy. La donna deve essere inviata, con una “mirada” appunto, ovvero con uno sguardo, dell’uomo che le chiede in questo maniera antica e silenziosa se ha piacere di ballare. La risposta è altrettanto chiara, seppur sempre muta: si ricambia lo sguardo, se si vuole accettare, lo si abbassa se non si ha voglia o piacere di ballare. Si ballano tre, o quattro, tanghi con lo stesso cavaliere, che poi si ringrazia e con il quale, quasi certamente, non si ballerà più per l’intera serata, accettando gli inviti di altri, e così via, a rotazione, tutti ballano con tutte.
L’ambiente è sobrio, e al tempo stesso pieno di colore, di fascino di altri tempi, per cui ti senti improvvisamente catapultata in un altro mondo, in un’altra epoca. Entrando nella bellissima sala della Stazione Leopolda ho percepito chiaramente di aver varcato un confine, lasciando fuori una realtà che soltanto a fine serata si recupera. Ed è bellissimo. All’interno di quello spazio, una bolla sospesa nel tempo e nello spazio, potresti essere in un’altra città, a Buenos Aires perché no, in un’altra epoca, negli anni Quaranta magari, e niente cambierebbe.
La modernità e la tecnologia si manifestano soltanto nel fatto che la musica è diffusa da un impianto e non da un’orchestra che suona, per il resto nulla ci indica che il tempo è passato, perché questo ballo ha conservato la sua marca antica, che consiste alla fine nel contatto alchemico fra due corpi, messi in connessione dalla musica.
Siamo agli inizi del secolo scorso, a Buenos Aires. L’Habanera cubana, la Payada dei gauchos, il Candombè africano si mischiano nei sobborghi e quello che ne viene fuori è la Milonga, un ritmo sincopato, pieno di struggente passione, legato alla terra. Una musica triste, malinconica e al tempo stesso densa di vita, di passione, nata dagli immigranti costretti a lasciare le proprie case, un incontro della cultura popolare europea con quella locale.
Gl incontri avvengono nei “conventillos” (grandi case con cortili) che si trovavano negli Orilla, i quartieri creati per gli immigrati, per ballare, ed è qui che si mischiano le storie, i ritmi, le lingue. È qui che nasce il tango.
Nei bordelli le donne si fanno pagare, per ballare con gli uomini, che in questo ballo di coppia assumono un ruolo di “guida”, che non significa comando, ma interpretazione, attesa, indicazione, invito, ascolto, capacità di permettere alla donna di esprimere al meglio la sua interpretazione della musica.
Ha perfino una sua lingua, a quel tempo, il tango: il Lunfardo, un miscuglio formato dalla contaminazione del castigliano con termini spagnoli, italiani, francesi, inglesi e tedeschi.
Presto questo ballo viene esportato in Europa, e conosciuto nei salotti borghesi, italiani, parigini, ed ecco che avviene “il salto”: il lato sensuale e il fascino del tango viene subito apprezzato, ma anche fortemente avversato, proprio come era avvenuto anche con il Valzer, neanche a dirlo subito viene bollato tanto come osceno e immorale.
L’epoca d’oro del tango sono stati gli anni Quaranta: ogni Barrio di Buenos Aires suona e balla la sua milonga. Poi gli anni bui, dei colpi di stato, dell’occupazione militare, le tragiche vicende dei desaparecidos: il tango viene “quasi” dimenticato. Molti fuggono all’estero, lasciando con dolore la propria terra, portano nel cuore la musica e i passi del tango, che abbandona così la classificazione di musica etnica, entrando nelle sale da concerto con nomi come Piazzola e Galliano.
Ed eccoci al presente, ecco che ottanta anni dopo, in una sala qualsiasi di un posto qualsiasi che potrebbe essere ovunque, tutto questo si racconta nei passi di sconosciuti che ascoltano la stessa musica e, inconsapevolmente o meno, ne mettono in scena il rito di origine, reinterpretandone ciascuno in un modo del tutto diverso la storia.
Non è forse magia questa?