La magia del tango: la prima milonga non si scorda mai

“C’è una milonga sabato sera alla stazione Leopolda, andiamo!”. Così i nostri maestri, Katy e Claudio hanno spinto gli allievi, perfino i più che neofiti come me, a partecipare alla prima, vera, serata di tango.

Pur avendo alle spalle solo cinque lezioni di tango accetto. Sono poche, cinque lezioni, ma non importa: troppa la curiosità, l’attrazione, il fascino verso questo ballo che da tanti anni mi “mirava” e che finalmente mi ha inviato a ballare, proprio come si fa nelle milonghe.

Perché ci sono regole, consuetudini, precise, nelle milonghe: ce le spiega con la sua eleganza ed esperienza Katy. La donna deve essere inviata, con una “mirada” appunto, ovvero con uno sguardo, dell’uomo che le chiede in questo maniera antica e silenziosa se ha piacere di ballare. La risposta è altrettanto chiara, seppur sempre muta: si ricambia lo sguardo, se si vuole accettare, lo si abbassa se non si ha voglia o piacere di ballare. Si ballano tre, o quattro, tanghi con lo stesso cavaliere, che poi si ringrazia e con il quale, quasi certamente, non si ballerà più per l’intera serata, accettando gli inviti di altri, e così via, a rotazione, tutti ballano con tutte.

L’ambiente è sobrio, e al tempo stesso pieno di colore, di fascino di altri tempi, per cui ti senti improvvisamente catapultata in un altro mondo, in un’altra epoca. Entrando nella bellissima sala della Stazione Leopolda ho percepito chiaramente di aver varcato un confine, lasciando fuori una realtà che soltanto a fine serata si recupera. Ed è bellissimo. All’interno di quello spazio, una bolla sospesa nel tempo e nello spazio, potresti essere in un’altra città, a Buenos Aires perché no, in un’altra epoca, negli anni Quaranta magari, e niente cambierebbe.

La modernità e la tecnologia si manifestano soltanto nel fatto che la musica è diffusa da un impianto e non da un’orchestra che suona, per il resto nulla ci indica che il tempo è passato, perché questo ballo ha conservato la sua marca antica, che consiste alla fine nel contatto alchemico fra due corpi, messi in connessione dalla musica.

Siamo agli inizi del secolo scorso, a Buenos Aires. L’Habanera cubana, la Payada dei gauchos, il Candombè africano si mischiano nei sobborghi e quello che ne viene fuori è la Milonga, un ritmo sincopato, pieno di struggente passione, legato alla terra. Una musica triste, malinconica e al tempo stesso densa di vita, di passione, nata dagli immigranti costretti a lasciare le proprie case, un incontro della cultura popolare europea con quella locale.

Gl incontri avvengono nei “conventillos” (grandi case con cortili) che si trovavano negli Orilla, i quartieri creati per gli immigrati, per ballare, ed è qui che si mischiano le storie, i ritmi, le lingue. È qui che nasce il tango.

Nei bordelli le donne si fanno pagare, per ballare con gli uomini, che in questo ballo di coppia assumono un ruolo di “guida”, che non significa comando, ma interpretazione, attesa, indicazione, invito, ascolto, capacità di permettere alla donna di esprimere al meglio la sua interpretazione della musica.

Ha perfino una sua lingua, a quel tempo, il tango: il Lunfardo, un miscuglio formato dalla contaminazione del castigliano con termini spagnoli, italiani, francesi, inglesi e tedeschi.

Presto questo ballo viene esportato in Europa, e conosciuto nei salotti borghesi, italiani, parigini, ed ecco che avviene “il salto”: il lato sensuale e il fascino del tango viene subito apprezzato, ma anche fortemente avversato, proprio come era avvenuto anche con il Valzer, neanche a dirlo subito viene bollato tanto come osceno e immorale.

L’epoca d’oro del tango sono stati gli anni Quaranta: ogni Barrio di Buenos Aires suona e balla la sua milonga. Poi gli anni bui, dei colpi di stato, dell’occupazione militare, le tragiche vicende dei desaparecidos: il tango viene “quasi” dimenticato. Molti fuggono all’estero, lasciando con dolore la propria terra, portano nel cuore la musica e i passi del tango, che abbandona così la classificazione di musica etnica, entrando nelle sale da concerto con nomi come Piazzola e Galliano.

Ed eccoci al presente, ecco che ottanta anni dopo, in una sala qualsiasi di un posto qualsiasi che potrebbe essere ovunque, tutto questo si racconta nei passi di sconosciuti che ascoltano la stessa musica e, inconsapevolmente o meno, ne mettono in scena il rito di origine, reinterpretandone ciascuno in un modo del tutto diverso la storia.

Non è forse magia questa?

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Guido io o guidi tu?

Ho sempre avuto questo problema, a ballare. Ricordi di quando ero giovane, si intende, che si sono rinfrescati quando ho deciso di fare la lezione di prova del corso di danze caraibiche che Martina ha inserito nella sua scuola dove faccio pilates ormai da diverso tempo.

– Eddai vieni a provare!

– Sono vent’anni che non ballo, non mi ricordo nemmeno più come si fa…

Scuse, labili, che hanno retto poco. E infatti, ovviamente, sono andata. Perché ne avevo voglia, perché il latino mi è sempre piaciuto, anche se non lo ballo davvero da tanto tempo, e poi un corso vero e proprio non l’ho mai fatto, li ho sempre trovati noiosi. In realtà se hai un buon senso del ritmo e del movimento puoi imparare andando a ballare, se trovi i giusti cavalieri che ti sanno insegnare, e ti sanno “guidare”… Sembra facile, ma non è proprio così scontato.

Come previsto e prevedibile, quasi tutte donne. Nessun problema, finché si imparano (o ripassano) i passi ognuno per conto proprio, ovvero senza formare le “coppie”.

Ma, al momento di mettere in pratica le sequenze apprese insieme a un partner, è sorto il dilemma: come facciamo se ci sono così pochi uomini?

Io ho colto la palla al balzo: – Per me non c’è problema, faccio l’uomo.

Rovesciare i passi non è poi un grosso ostacolo, primo perché è vero che ho ballato tanti anni fa ma è vero anche che ho ballato tanto, e alla fine è come andare in bici, si traballa un po’ ma come far girare le ruote si trova il verso di ricordarselo. Secondo perché a me, fare l’uomo, piace.

Ho sempre avuto infatti un piccolo problema a ballare: guida l’uomo, dovrebbe. Non la donna. La donna deve stare lì, a farsi guardare, a farsi scegliere, e rifiutare tutti quelli che vuole finché non trova quello che le va a genio. Oh, almeno nel ballo funziona così eh! Ecco, quando il cavaliere che si propone ti sconfinfera gli dici di sì, e accetti di ballare. E dentro di te speri che sappia guidare, sennò, c’è poco da fare, finisce che guidi tu.

E hai voglia a rifarti quel discorso, che – anche qui, almeno nel ballo – il bello è farsi trasportare, lasciare che comandi il cavaliere, staccare il cervello, non pensare, ai passi da fare, alla direzione da prendere, alle figure, no… niente di tutto questo. Almeno nel ballo cavolo, ci pensa lui! Tu devi solo lasciarti andare.

Ecco, così dovrebbe essere. Ma all’atto pratico va diversamente, perlomeno a me.

E così mi sono detta stasera faccio l’uomo. Non me la sono mica cavata male: una signora mi ha perfino detto “però, ce ne fossero di uomini con la tua capacità di guidare!”. Mi sono sentita fiera del mio ruolo di maschio, almeno per una volta ricevo un elogio, per questa mia propensione, e non un rimprovero!

A un certo punto l’istruttore ha deciso che avevo fatto l’uomo abbastanza e che dovevo ripetere la stessa sequenza facendo la donna. E lì è stato meno facile. Non tanto rovesciare i passi – invertire i giri, cambiare la gamba e la direzione con cui si parte – quanto tornare mentalmente al concetto di “lasciarsi andare”; e non è andata benissimo. Soprattutto con quei poveretti di allievi che erano alle prime armi: con uno ho fatto lo stesso i passi dell’uomo, e devo essere stata talmente convinta e convincente che quello ha fatto i passi della donna senza manco rendersene conto. Con un altro sono stata più brava, e almeno ho fatto i passi giusti, ma quanto a lasciarlo guidare non se ne è parlato proprio. Poi allora mi ha preso l’istruttore, che aveva assistito divertito alle scene, all’attacco della musica mi ha guardato sorridendo e mi ha detto:

– Guido io.

Va bene, guida tu, che ti devo dire. E così, in effetti, è stato. O quasi, non posso dire di essermi affidata del tutto e tutti quei discorsi lì, ma insomma, si è creato il gioco, ed è stato divertente.

Quello che mi sento di dire a mia giustificazione è che non è colpa mia. Se guido io intendo. Perché il ballo è in qualche modo una metafora della vita appunto, solo con la musica di sottofondo, ed è uno dei motivi per cui mi piace tanto.

E allora lo voglio dire chiaro e tondo: se guido io, cari uomini, è perché non siete mai in grado di farlo voi. Perché non mi parrebbe il vero di trovare un cavaliere che ti cinge, ti guarda negli occhi e ti dice: – Segui me. Ci penso io.

E poi lo sa fare davvero, non che lo dice e dopo dieci secondi non sa dove e come farti girare. Non che lo dice e poi senti il “vuoto decisionale” che qualcuno deve pur riempire sennò il tempo passa e perdi il ritmo, e resti indietro, e resti fermo. Perché quando balli fermo non ci puoi stare, devi ballare, seguire la musica, devi andare fluido, deciso, sicuro. E per far questo ci vuole qualcuno che ci sappia andare davvero, non che faccia finta e dopo le prime due figure si è già perso e, di fatto, anche se non lo ammetterà mai, te lo chiede, con lo sguardo, con l’atteggiamento del corpo, con quel tempo che salta e che fa perdere il ritmo: per favore fallo tu, guida tu, che io non me la sento. Pensavo di sì e invece no. Ecco come stanno le cose.

Questa faccenda del dilemma “guido io o guidi tu” si pone per questi motivi, perché se un uomo sa guidare davvero, vai tranquilla che la domanda non te la pone neanche. Lo fa e basta. Senza tanti discorsi e senza tanti rimproveri alla donna che ha la pretesa di guidare al posto suo, perché vuol fare l’uomo. Non è che vuole fare l’uomo per forza, non vuole guidare per forza, il fatto è che siamo in due cavolo, e bisogna andare da qualche parte, qualcuno dovrà pur deciderlo, o no?

Intanto io ho deciso che mi darò a un corso di tango, vediamo se almeno lì sarò più fortunata…

Decalogo dell’abbandono

Quando qualcuno ti lascia dovresti fare una cosa soltanto: sparire.
Quando qualcuno ti dice che non vuole più stare con te vuol dire che non vuole più stare con te. Non che vorrebbe tanto ma non ce la fa…che sei un grande amore, ma non se la sente di portare avanti questa storia perché poi in futuro potrebbe farvi soffrire. O andare a finire male e allora tanto vale non andare avanti affatto.
Quando qualcuno ti lascia vuol dire, in teoria, che ha valutato tutto, tentato tutto, in misura naturalmente di quelle che sono le proprie capacità, possibilità e soprattutto volontà, e alla fine di questa valutazione ha deciso che… non ne vale la pena. Tu non ne vali la pena.
Il gioco non vale la candela. Non ci sono i presupposti, rischiare non vale quel che si potrebbe vincere, in parole povere.
È un concetto piuttosto semplice, lo capisce anche un bambino di sei anni, se glielo spieghi così.
Eppure, quando qualcuno ti lascia, la verità è che te ne fotti di tutto questo ragionamento, e delle regolette che magari tu stesso fino a quel momento hai sempre applicato, nonché consigliato, anche con una certa perizia e ottime capacità argomentative.
Quando qualcuno ti lascia ecco che cosa succede, davvero.
Succede che tu non ci credi, prima, poi ti dici che senz’altro hai capito male, e quindi ri-chiedi, poi passi alla fase in cui vuoi argomentare, perché sei certo che spiegando parlando e dirimendo le cose si posso risolvere. Se sei abbastanza fortunato il lasciante ti fa il dono di ridirti che non vuole più avere a che fare con te, magari con buon garbo, degno di un lucchese, e modi gentili, degni d’un torinese: falso e cortese.
A questo punto il lasciato dovrebbe aver compreso che sì, le cose stanno così: sei stato lasciato, prima lo capisci, prima ti rassegni e meglio è, soprattutto per te. Ma spesso, purtroppo, nei fatti anche qui le cose vanno in modo diverso.
L’altra regoletta d’oro vorrebbe infatti che ci si attenesse alle parole, o meglio ancora ai fatti, e non ci si attaccasse invece ai non detti, ai forse ha detto/scritto questo ma intendeva l’opposto, oppure ancora mi dice così perché desidera che faccio cosà. NO. Ti dice così perché le cose stanno così. E se così non è, alla fine, è un problema suo perché il mondo è pieno di guerre scatenate da problemi di comunicazione, figuriamoci se c’è bisogno di inzupparli anche nelle relazioni personali.
Ecco, con gli animali è più facile: se un cane ti scodinzola, abbassa la testa e ti viene incontro vuol dire che vuole un contatto con te. Se invece tira indietro le orecchie e solleva il labbro emettendo un suono sinistro vuole dire che te ne devi stare alla larga. Funziona. In questo caso la comunicazione funziona, chiara, lineare, diretta. Perché per gli esseri umani non è così?
Ci sono poi regole che, ti suggeriscono, hanno a che fare con la dignità e l’orgoglio. Ti ha lasciato? Non ti merita! Non ti vuole più? Non sa cosa si perde! Non ti vuole nemmeno incontrare per dirtelo di persona? Sai quanti ne trovi di meglio! Ecco, anche tutte queste belle cosette qui, non funzionano. Non è debolezza, è forza: chi è forte non ha paura di mostrare le proprie fragilità, non ha paura di piangere, di chiedere, perfino di supplicare; non ha paura di amare. Anche se rischia di farsi male, anche se è certo che se ne farà: non importa. Chi è forte non fugge, neppure di fronte al dolore, se lo prende come una fucilata nel petto e se lo porta dentro: una ferita diventa medaglia.
Perciò se ti ha lasciato una persona a cui tenevi davvero, dell’orgoglio non te ne frega nulla, se ritieni, nel tuo cuore, di avere ancora parole, e soprattutto gesti, da mettere in campo le regole non contano. Conta il fatto che non sei pronto a mollare, e che vuoi poterti dire un giorno: ho fatto tutto quello che era in mio potere. Perché la vita non è una corsa che si vince o si perde a tavolino, per sapere come andrà occorre buttarsi in pista e correre più veloce che si può. Non importa se si perde: nella vita tanto, alla fine, si perde sempre. O forse si vince sempre, se si vive qualcosa che ci rende felici, che ci arricchisce, che ci fa sentire vivi. Anche per un giorno in più. Anche per una sola ora in più.
Rinunceresti a goderti un tramonto perché dopo arriva la notte? Rinunceresti alla vista di una cima perché la sera senz’altro faranno male le gambe? E all’emozione di un galoppo, perché la tua schiena ti chiederà il conto? Tutto quello che siamo, che facciamo, presenta il suo conto.
Non è fatalismo, è accettazione di un principio semplice, ma fondamentale: la vita la vivi in campo o stai in panchina. Punto.
Ci sono occasioni in cui scegliere la panchina è saggio e giusto: perché ci si deve riposare, riprendere fiato dopo un lungo sforzo, perché si ha bisogno di un tempo per chiarirsi le idee e decidere la prossima strategia. Oppure perché si sa di avere una partita più importante da giocare e quella che si ha davanti non vale la pena, non vale la pena di stancarsi, magari rischiare di farsi male. Il pensiero è già altrove.
Ma non tutto è negativo, per chi viene lasciato, ci sono punti a suo vantaggio.
Innanzitutto non deve portare il peso di una scelta, che non ha compiuto, non che accettarla sia facile, tutt’altro, ma non comporta il fatto di doversi far carico del dolore dell’altra persona. Non è poco.
Si può perdere il sonno, la fame, ci si può domandare mille e mille volte dove non si è capito, ma poi ci si rassegna. E arriva la serenità, o almeno una parvenza. Un soffio di leggerezza che ti spiega che non potevi comunque farci nulla, più di quello che hai fatto fregandotene di tutte le regole che il decalogo dell’abbandono vorrebbe imporre. Essertene fregato e aver mostrato solo amore, apertura, possibilità, ti sarà d’aiuto a questo punto. Perché saprai che più di questo non era nelle tue possibilità fare. Ed è una cosa importante nella vita: dire ho perso la corsa, ma nelle gabbie ci sono entrato e al via ho corso più veloce che ho potuto. Non ho perso a tavolino, ho rischiato. Sì, forse sapevo che avrei perso, ma c’ho provato, sono caduto, mi sono fatto male, ma so che mi rialzerò. Con qualche osso rotto, la testa confusa, i muscoli dolenti, la sconfitta che brucia. Ma sarebbe bruciato di più non averci provato.
Ecco allora che alla fine, in questo breve “decalogo dell’abbandono”, altro non mi sento di consigliare se non di seguire il proprio cuore. Giusto, sbagliato, non importa. Perché alla fine di tutto, quando la sconfitta brucerà meno, quando le ossa si saranno risaldate, le ferite chiuse, i muscoli riposati, alla fine di tutto non è a te che resterà l’amaro in bocca, e soprattutto mai e poi mai nel resto dei tuoi gironi dovrai convivere con quella subdola domanda: ma se ci avessi provato… se ci avessi creduto un po’ di più, e quella partita l’avessi giocata invece di decidere di non farlo perché tanto sapevo di perdere, che cosa sarebbe successo?
Ecco, chi sceglie di non giocare, non lo saprà mai.
E questo in realtà vale anche per chi lascia, anche se sembra assurdo: lasciare per sopravvivere, lasciare quando si è tentato tutto, lasciare quando si è certi di aver detto provato cercato ogni via e si è fallito. Allora, sì, si rinuncia, caricandosi sulle spalle anche la responsabilità del dolore dell’altro. È senz’altro più difficile, e faticoso. Ma anche per questo vale lo stesso principio: ce l’ho messa tutta. Solo in questo modo il fallimento si trasformerà in pacifica accettazione.
Perciò alla fine, che tu sia lasciato o che sia tu a chiudere, la cosa che conta davvero è la consapevolezza di aver corso più veloce che hai potuto.
Perché l’unico fallimento che brucia davvero, e che resta, è quello di non averci creduto abbastanza.

Facile, ma non facilissimo

Almeno non per me, questo va detto.

Tema: prenotazione del vaccino.

Svolgimento, per tentativi.

TENTATIVO NUMERO 1. Appostata al computer, quando è scattata l’ora X mi sono accorta che, dopo l’attesa, non lunghissima questo va detto, non mi dava il mio anno. L’amica e collega Lisa mi viene in supporto: devi ricaricare la pagina! La pagina non si ricarica: panico. Minuti preziosi che scorrono via, visioni apocalittiche di luoghi ameni dove dover andare, ovviamente perdendomi, per la prima e ultima volta in vita mia, a farsi la puntura magica.

TENTATIVO NUMERO 2. Provo dal cellulare, come alcuni saggiamente avevano suggerito, ma visto che c’è un sacco di tempo da aspettare riprovo anche dal computer, cancellando la cronologia, ma mi dice bellina ma sei scema? c’hai già il numerino di là, non fare la furba e rimettiti in fila al posto tuo. Come non detto.

TENTATIVO NUMERO 2 e 1/2. Arriva il mio turno (sul cellulare) vado alla grande, poi mi dice ti si manda un numero per SMS te lo copi qui e vai. Diamine, e secondo te io come faccio a vedere il numero su un SMS? Genio: chiudo e vado ad aprire l’SMS. Perso tutto. Sconforto, ma breve.

TENTATIVO 3. Torno sul computer, attendo, tutto fila liscio, vado, metto tutto, anche il CF a memoria che è una roba che non m ricordo mai…fino alla data. Vaccino 13 luglio, il 13 mi piace, è un numero che porta fortuna (sì ma muoviti che qui se traccheggi capace scade tutto) – Richiamo 24 agosto. Eh no! il 24 agosto no! Mi garberebbe essere in ferie cavolo! e qui non c’è il mela-zeta come sul mio mac e – altro colpo di genio – pigio la freccina in alto a destra del browser per tornare indietro. RI-perdo tutto.

TENTATIVO 4. Riparto, chi si ferma è perduto e non c’è due senza tre il quattro vien da sé. Vado liscia stavolta faccio un calcolo furbo: se prendo il primo appuntamento la settimana dopo, tipo il 20, il richiamo, se non son proprio sadici, sarà il 30 o il 31 ora il conto, in un momento così difficile, non lo so fare ma dai…proviamo e vai!

VACCINO 20 LUGLIO – RICHIAMO 31 AGOSTO. Alle otto, perché casomai servisse andarci digiuna come per le analisi del sangue non mi va di stare senza niente nello stomaco fino a tardi.

Non mi voglio soffermare sul luogo che riecheggia un po’ inquietante: “HUB Ospedaletto”, sarà uno di quei posti dove io mi perdo di sicuro. Ma ci penserò più avanti, tipo il 19 luglio, quando chiederò a qualcuno di accompagnarmi, oppure metterò il navigatore per arrivarci, perdendomi comunque nel parcheggio o tra i vari ingressi.

Non importa! Sono fiera di me, ce l’ho fatta! Diversi mi avevano incoraggiato ma temo con una buona di dose sopravvalutazione nei miei confronti e aspettative troppo alte.

Comunque ce l’ho fatta dai. In fondo era facile, anche se, va detto, non facilissimo.

Tempo al tempo

Vorrei che tu ci fossi, per dirmi ancora che sono l’ufficio complicazioni affari semplici.

Per ricordarmi che prendo troppo sul serio le cose, le persone, e soprattutto i miei sbagli, ché nella vita non può essere tutto o bianco o nero, perché esiste anche il grigio nel mezzo e potrebbe non essere così male.

Per discutere con te fino all’ultimo fiato una mia scelta, per subire le tue critiche affilate come le lame della tua pattada che passavi con lentezza sulla pietra per arrotarla e divertirti a tagliarci un foglio di carta, sapendo che non avrei cambiato idea ma ne sarei uscita più convinta e più consapevole.

Vorrei che tu mi ricordassi ancora che esiste anche il lieto fine, che non deve finire tutto in tragedia per forza, e se poi accade non muore nessuno.

Che dovrei dormire di più e pensare di meno, che tanto sennò poi rompo i coglioni al prossimo, e leverei la pazienza anche a Giobbe. Che sfinisco, che affondo il coltello senza indietreggiare quando a volte dovrei avere pietà, prima di tutto di me stessa.

Che non mollare mai a volte non è la cosa più sensata da fare e neppure spaccare il capello in cento parti che poi non sembra più nemmeno un capello.

Vorrei che suonasse il telefono “Cocca, domani mattina monti te? Guarda non galoppare e basta che gli sciupi il passo, c’ho messo mesi a farglielo venire così. E smetti di baciare il cavallo che è una bestia e se poi ti bacia lui vedrai ti passa la voglia”.

Vorrei spiegarti ancora e ancora perché non mangio carne e vedere che mi riempi il bicchiere di vino anche se non lo bevo perché sennò metti tristezza a tavola.

Vorrei che ti fosse scappato qualche volta un “brava sono orgoglioso di te” ma eri uno che di chiacchiere ne facevi poche, e uscita dalla sala operatoria la prima cosa che mi hai chiesto è: “Quando rimonti?”. “Babbo ora si guarda, intanto fammi vedere se mi rizzo”.

Vorrei che tu mi aiutassi a ricordare che spesso le cose sono più semplici di quel che pare, basta sgombrare il tavolo dai fronzoli, oppure basta saper aspettare: tempo al tempo, dicevi sempre, perché il tempo è galantuomo e risolve lui quel che a noi non ci riesce.

E poi vorrei che almeno arrivasse il sole, ho guardato il Lamma babbo, perché per andare a cavallo si guardava sempre quello, dicevi che è l’unico affidabile, ma poi era bello uscire anche con la pioggia, perché tanto il sole, quando vuole arrivare arriva e tanto vale godersi il tempo che abbiamo lo stesso, al meglio di quello che si può.

Perché meglio un giorno da leoni che cento da pecora, sempre per te.

Per favore non chiamateli “sacrifici necessari”

In questo anno si è detto e scritto di tutto. Troppo. Siamo tutti diventati virologi, politici, economisti, esperti di ogni settore, senza, di fatto, poter far nulla se non adeguarci alle varie misure che sono state indicate, ingoiando e baciando rospi, sperando che si sarebbero trasformati, mese dopo mese, se non proprio in prìncipi in qualcosa che potesse assomigliare alla “normalità”.  Numerosi Dpcm si sono susseguiti, imponendo alle nostre vite rinunce e nuove abitudini, a partire dall’uso di mascherine e disinfettanti; abbiamo imparato nuovi concetti, facendo entrare nel nostro vocabolario quotidiano parole prima relegate a rare e inusuali occasioni: distanziamento, assembramento, contagio. Via le occasioni “sociali”, via i pranzi, le cene, gli apertivi, le feste con i nostri cari, le sagre, le fiere, via il cinema, il teatro, via i concerti, gli spettacoli, le presentazioni di libri. Via le attenzioni alla salute e al benessere: chiusi palestre, piscine, centri termali, centri estetici. Togliere, ogni giorno, qualcosa delle nostre abitudini “sociali”, che prima davamo per scontate, senza neppure renderci conto di quanto fossero importanti e quanto ci sarebbe costato rinunciarci.

Ma sono stati “sacrifici necessari”, quante volte ci è stato detto, quante volte ce lo ripetiamo: per cercare di arginare questa epidemia, per non far collassare gli ospedali e intasare le terapie intensive, per non morire o non far morire i più fragili.

Perché c’è chi ha dovuto rinunciare a ben di più: c’è chi c’ha lasciato la vita, propria o di qualcuno caro, c’è chi è morto lavorando, come medico o come infermiere, c’è chi s’è fatto la terapia intensiva, c’è chi non l’ha potuta fare morendo in fila davanti all’ospedale. C’è chi ha perso il lavoro, chi ha chiuso il proprio locale, c’è chi non sa più come pagare l’affitto di fondi che non usa, chi non sa a chi vendere merce che ha prodotto, chi non sa come produrre merce che poi teme di non vendere. E poi ci sono loro.

I bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze. Un esercito muto che ha assistito, inerme, a tutto questo, subendone conseguenze che resteranno indelebili e che avranno un peso, ad oggi ancora non ponderabile, sulla crescita e lo sviluppo delle nuove generazioni.

Silenziosi, si sono adeguati all’uso delle mascherine, a non poter abbracciare i propri compagni di classe, a non conoscerli quasi, per chi ha frequentato la prima superiore, a cercare di imparare qualcosa stando davanti a uno schermo dalla mattina alla sera.

Svegliarsi, far colazione e sedersi davanti a un computer, se ti va di lusso, altrimenti allo schermo di un telefonino perché magari in casa un computer per ciascuno non c’è. Passarci tutta la mattina, cercando di seguire anche se non ne hai voglia; il tempo non passa, la testa ti scoppia e non puoi girarti e incrociare lo sguardo della tua compagna che con un gesto o un’espressione buffa ti regala un sorriso. Non ha senso aspettare la ricreazione, per giocare prendendo una boccata d’aria in giardino, oppure per vedere quel ragazzo o quella ragazza che ti piace che magari oggi ricambia la tua occhiata, o forse lo becchi che fa il furbo con qualcun altro, ma almeno hai le tue amiche del cuore accanto, e sapranno consolarti e, sgomitando, ti faranno scoppiare a ridere. Non ha senso neppure attendere la fine della mattinata, perché al massimo dovrai fare quattro passi dalla scrivania alla cucina, e invece vorresti fare casino per il corridoio mentre suona la campanella e dici “evvai un altro giorno di scuola è andato, menomale che non mi ha interrogato”. Non ti puoi fermare all’uscita di scuola per metterti d’accordo con qualcuno con cui studiare il pomeriggio o fare un giro in bici finiti i compiti.

A pranzo non hai fame, perché non può venirti fame a stare buttato su una sedia, o sul divano, o sul letto tutta la mattina. Ma pranzi lo stesso. E dopo che fai? Guardi un po’ di tele, o chatti, o fai una partita alla play, prima di rimetterti a fare i compiti guardando i video caricati su classroom. A danza, a calcio, a pallavolo, a basket, a lezione di teatro, di circo, di chitarra o di cosa facevi prima non ci vai più. Finiti i compiti riparte il ciclo di vita virtuale che come la ruota di un criceto gira tra cellulare e televisione.

Sì, c’è tua madre che si sgola per farti uscire almeno dieci minuti, anche se con la mascherina, per farti prendere un raggio di sole che sei bianco come un lenzuolo steso. Ma non ne hai voglia.

Tutto quello che vorresti è stare in pigiama tutto il giorno, mangiarti biscotti e giocare alla play, o chattare con i tuoi amici, perché tanto nessun altro alla fine lo può capire che per te questi non sono sacrifici. Sono un furto.

Un furto di un momento che non tornerà mai più.

Un furto di una crescita che non ha a che fare solo con la formazione scolastica e l’istruzione, che peraltro sarebbero già più che sufficienti, si tratta di una crescita psicologica, emotiva, che non può essere fatta in DAD. Non può passare attraverso uno schermo, la vita. Non è vita. Non è reale. Non accade davvero. E spaventa. Spaventa quello che diventeranno, questi ragazzi, privati del sole che scotta la pelle, dell’acqua che ti senti affogare e devi imparare a nuotare, del fango che ci scivoli ma poi il tuo amico del cuore ti afferra e ti tira su. Perché il mondo, questo mondo oggi malato di coronavirus, è a loro che lo lasceremo. Ma senza istruzioni, e senza gli strumenti per potersele scrivere da soli, le loro istruzioni.

È difficile riportare tutto questo sotto all’egida del “sacrificio necessario”, e non perché sia facile trovare una soluzione, altrimenti voglio pensare che sarebbe stato fatto.

Io non ce l’ho la ricetta pronta, al contrario di tanti leoni da tastiera: io non lo so dire che cosa si potrebbe o dovrebbe fare, non è il mio mestiere, non sono formata per risolvere questo tipo di situazioni, e certo non invidio chi ha la responsabilità di farlo. Non lo so in che modo sarebbe possibile restituire a questi bambini e ragazzi un terreno sotto ai piedi sul quale camminare la loro vita. Ma so che occorre metterci ogni sforzo, considerando la scuola, e la loro vita, un’assoluta priorità, un bene prezioso da tutelare, da difendere, da scaldare, in ogni modo, a scapito di altro, se necessario. Considerare la scuola “sacrificabile” è troppo facile, e non sempre la scelta più semplice è quella più giusta. Anzi, quasi mai.

Nella vita ho imparato che prima di rinunciare a qualcosa di importante devo pormi una domanda: sono sicura di aver fatto tutto, davvero tutto, e tutto il meglio di quello che potevo? Soltanto allora ci si può arrendere. E forse neppure…

Ecco, io vorrei che ci si ponesse questa domanda anche per la scuola, e non credo che la risposta del nostro Paese possa essere: sì, siamo certi che rinunciamo perché abbiamo fatto tutto il meglio e tutto il possibile.

Una mano lava l’altra, e tutte e due lavano il viso

Un anno è passato, da quando non ci sei più, nonna Rina cara.

Sono successe diverse cose, in questo anno, tu hai chiuso gli occhi l’8 gennaio del 2020, proprio pochi giorni prima che scoppiasse questa pandemia, che da un anno tiene in pugno il mondo intero; uccide, affama, ferisce, divide, spariglia.

Sono felice che tu non l’abbia vissuta, per quanto, nella tua incoscienza di bambina quasi centenaria, non te ne saresti accorta. Ma saresti stata un bersaglio facile, per la tua fragilità, e l’idea che ti portassero via, in ospedale, da sola, per non rivederti e finire il tuo tempo in una corsia senza poterti dare neppure un ultimo saluto mi ha spesso sfiorata. Non è andata così, per fortuna, a volte le cose hanno un disegno, se hai la fede lo chiami così, oppure è solo il caso, o forse un destino lo abbiamo tutti, sia che sia il frutto del progetto di un dio che tutto vede e provvede, oppure appunto soltanto un giro di giostra che si ferma dove capita, e a chi tocca scende.

Fino al giorno di Natale sei stata bene, senza mai chiedere neppure una volta di mio padre, tuo figlio: perché non fosse più a casa. Abbiamo pensato, sperandolo, che tu non ti fossi resa conto di nulla: una madre non dovrebbe mai vivere la morte del proprio figlio. Abbiamo pensato così, ma forse, chissà, ci siamo sbagliati.

Quel giorno di Natale ti sei seduta a tavola e ti guardavi intorno, ci guardavi, e non dicevi niente. A metà pranzo hai detto che non avevi più fame e volevi andare a riposarti, una cosa insolita, perché la compagnia ti è sempre piaciuta, sgranocchiare qualche dolce, bere il tuo bicchiere di vino.

E invece sei voluta salire prima in camera tua. E non sei mai più scesa.

Hai smesso di mangiare, di bere. Lo hai fatto con serenità, con equilibrio, in silenzio, con l’eleganza che sempre ti ha caratterizzato.

Abbiamo cercato di nutrirti, prima con frullati a piccoli cucchiaini.

– Scimmia – ti ho sempre chiamato così, e ormai era il nostro codice.

– Dimmi cocca.

– Ma ti ricordi quanto mi hai imboccata da bambina? – e intanto ti infilavo il cucchiaino in bocca che, ubbidiente, accettavi.

– Eh cocca….quanto ti ho imboccato, non mangiavi niente…

– E adesso tocca a me imboccarti, vedi com’è buffa la vita? – e intanto ti rifilavo un altro cucchiaino, proprio come facevi tu raccontandomi le storie.

Stavi nel tuo letto tranquilla, senza lamentarti, senza chiedere niente. Ti lasciavi pulire, cambiare, come una bambina appunto.

Il problema erano le piaghe, che rapidamente si stavano ampliando, sulla tua pelle sottile come il vetro, quasi trasparente.

Il problema, soprattutto per mia madre, era anche un altro: la badante.

Come spesso accade nelle situazioni tragiche, c’è stata una nota comica.

La badante “ufficiale” era in Polonia per le feste, avevamo dunque trovato una sostituta momentanea, “raccomandata” da un’amica di un’altra…insomma le classiche vicende che chi ha a che fare con le badanti conosce molto bene.

La sostituta era silenziosa, ma essendo come sempre in casa nostra bene accolta e trattata come membro della famiglia sembrava a suo agio, e si dava molto da fare. Solo lo sguardo era “strano”, da bestia che si è persa e non sa dove trovare riparo per la notte.

Il 2 gennaio, di prima mattina, mi chiama mia madre e mi dice:

– Vieni, non riesco a svegliare A.

– Come non riesci a svegliarla… in che senso?

Nel senso che era tornata la mattina presto (il primo dell’anno era stato giorno festivo ovviamente) e si era messa a letto senza alzarsi.

Siamo messi bene.

Mi precipito a casa e salgo in camera: la chiamo, la scuoto leggermente, nulla.

Telefono al nostro amico medico, lui e la compagna due angeli che sempre ci sono stati accanto anche nella vicenda di mio padre: con la consueta disponibilità si impegnano a passare subito.

Mi siedo in cucina, nonna cara non te ne avere a male, e ci mettiamo a ridere: io, mia madre, il mio compagno. Che situazione assurda: la nonna immobilizzata a letto, la donna pure, nella stanza di fronte. E ora che si fa?

L’amico medico ci dice subito che va chiamata un’ambulanza, A. non risponde e non reagisce, c’è poco da fare.

Arrivano quelli della Misericordia, salgono le scale e si trovano di fronte due stanze con due donne a letto. Ci guardano un po’ smarriti: – Ma quale dobbiamo prendere? – fa una ragazza.

– Quella giovane, qui a sinistra, la nonna lasciatela stare che sta bene così.

Siamo venuti a sapere poi il motivo di questo strano malessere di A.: coma etilico, con un rinforzo di psicofarmaci. Non posso negare che alla fine abbiamo provato pena per questa donna, e abbiamo cercato, senza però riaccoglierla in casa, di darle un aiuto. Tu avresti voluto e fatto così nonna, non ho alcun dubbio.

Di certo, però, ci ha lasciato nei guai, in un brutto momento: siamo rimasti senza badante, e senza aiuto, con te allettata, da cambiare, da lavare, da cercare di nutrire, con le flebo, con piccoli cucchiaini di te ben zuccherato, che rifiutavi con cortesia e educazione.

Ecco, posso dire con certezza perché ho avuto la fortuna di esserti accanto, che fino all’ultimo tuo respiro hai trattato gli altri con garbo e gentilezza.

Era un mercoledì mattina, come l’ultimo giorno di babbo, nel quale però avevo fatto l’errore di passare a casa, ma poi andare in ufficio. Quella mattina invece dissi a mia madre che restavo, che non sarei andata a lavoro, anche per aiutarla a cambiarti e lavarti.

Sei sempre stata una donna molto magra, e molto bella, ma alta, anche se longilinea, quindi comunque una persona da sola non riusciva a sistemarti.

Così quella mattina, prima delle nove ti abbiamo lavata, cambiata tutta, incremata e improfumata, ti chiedevo di aggrapparti alla mia spalla e poi di girarti, su un fianco, sull’altro, e tu sempre dicevi “grazie”, “scusate tutto questo disturbo”.

Finalmente abbiamo finito, e possiamo lasciarti in pace, fai un bel sospiro, mi chino per baciarti e abbracciarti e chiederti se stai bene messa così.

Fai di sì con la testa, ancora ringrazi, e poi uno strano gesto: afferri con le dita affusolate la mia collana, e cominci a girarla, e mi guardi.

– Nonna, vuoi il tuo rosario? Vuoi dire le preghiere?

– Sì cocca.

Te lo prendo, lo stringi e sospiri in pace. Mi siedo accanto a te, mi porgi la mano.

Fai un sospiro più lungo e chiudi gli occhi.

Serena, nel tuo letto, con la mano nella mia mano, saluti questo mondo dove sei stata per quasi cento anni, novantotto per la precisione.

Nonna Rina è stata per me come una seconda madre, dato che ha sempre vissuto con noi, fin da quando mio fratello e io siamo nati. Si è sempre occupata di noi, dedicando la sua vita al marito, alla famiglia, al figlio Sem, e poi ai nipoti.

Non era una donna fragile, affatto. Nonostante l’apparenza elegante e leggiadra, i modi di una educazione rara, non ho mai sentito alzare il tono della voce o dire una cosa sgradita di qualcuno, era una donna austera, autoritaria e poco incline a sentirsi dire di no. In poche parole, comandava lei. Almeno in casa.

Erano donne, quelle come lei, che hanno fatto la guerra, poco più che ventenni, sulla Linea Gotica (la nonna era nata e cresciuta a Lamberti, sotto l’Abetone) con bimbetti piccoli in casa e i tedeschi fuori dalla porta.

Erano donne, quelle come lei, che non si scomponevano di fronte a niente, che con “mi scusi, per favore e grazie” attraversavano a testa alta un plotone di soldati, così come le difficoltà della vita.

Erano donne come forse oggi non ce ne sono più, ma il loro sangue, il suo sangue, scorre nelle nostre vene, nelle mie vene. I suoi insegnamenti, la sua curiosità e innata eleganza, l’amore per le cose belle, per gli animali, la capacità di aiutare gli altri, sempre, sono eredità che mi ha lasciato, e che mi accompagnano ogni giorno e di cui cerco di fare tesoro prezioso. Non sempre riesco.

“A chi ti porge la mano, cocca – mi dicevi – non dire mai di no. Perché una mano lava l’altra, e tutte e due lavano il viso”.

Le tue mani mi hanno lavato, nutrito, accarezzato, accudito, sculacciato, non di rado, nonna adorata, per mano mi hai accompagnato tante volte, e io sono felice che tu abbia lasciato questo mondo stringendo la mia, di mano.

Scrivere ai tempi del lockdown, e non solo (non tutte le pandemie vengono per nuocere)

Lo so, detta così pare una bestemmia. Ma non è che sono contenta che ci sia stata una pandemia, con tutte le vittime, le tragedie, personali, sociali, economiche, non sono contenta affatto di questo. Volevo dire un’altra cosa. O almeno provarci.

Volevo dire che in questo lungo periodo, ormai quasi un anno, caratterizzato da due lockdown, con una lieve parentesi estiva nel mezzo, in cui un minuscolo virus ha cambiato le vite di tutti noi, qualche lato positivo mi sento di evidenziarlo.

E parto, non a caso, dalla scrittura. Per trovare qualcosa di bello, per testimoniare un segno che questi improvvisi e drastici cambiamenti hanno lasciato, almeno nella mia vita. Non è un voler vedere per forza un bicchiere mezzo pieno quando è, inconfutabilmente, quasi vuoto. Ma trovarci costretti a lasciare quasi tutte le consuete abitudini, per rintanarci nelle nostre case, a fare i conti con le quattro mura che ci siamo trovati per scenario su cui proiettare presente e futuro mi ha insegnato a cambiare prospettiva. Si può, e a volte non è affatto male. Io, rigida, programmatrice, che non ama deviare dalla strada tracciata, ancora una volta ho detto ma sì, proviamo, e vediamo come va.

Prima di tutto senza il primo stop non avrei avuto tempo, modo, e forse neppure coraggio, di finire il mio romanzo, Testacoda, terzo della trilogia della “zoomafia” iniziata con Purosangue. Come si dice in Toscana non trovavo il verso di finirlo. M’ero incartata, ottima la motivazione di non avere mai “tempo”, sempre di corsa tra ufficio, casa, figlio, cane… le scuse non mancavano certo.

E invece il tempo all’improvviso si è fermato, si è dilatato, rallentando e cambiando il ritmo alle giornate. E così è arrivato lo spazio per scrivere, correggere, rileggere. Ho finito il romanzo, che è uscito quando le restrizioni hanno allentato un po’ la morsa, e questa estate mi sono potuta godere anche diverse presentazioni – festival, book at home, convegni – sempre con le presenze contingentate e le mascherine, ma è stata una bella boccata di ossigeno. Per poi richiudere i battenti e tornare allo smartworking, alle giornate in tuta-pigiama-tuta-pigiama, a destreggiarsi tra DAD da una parte e meet, zoom, skype e jitsi dall’altra.

Ed è arrivata l’occasione per scrivere un secondo, piccolo, libro, proprio sull’utilizzo della mascherina per i bambini, soprattutto per quelli più fragili: Il cuore non indossa la mascherina. Guardavo mio figlio, tredicenne, vagare per casa in vestaglia, passando da un dispositivo all’altro, dal computer al cellulare, dalla playstation alla televisione: una deriva innaturale, preoccupante. L’unico davvero felice è sempre stato Cirano, #scemocane, che passa le sue giornate al caldo tra poltrona e divano, mai da solo, che è la cosa che odia di più, godendosi lunghe passeggiate quotidiane che fanno bene a me e a lui.

In questo periodo così difficile ho riscoperto il valore della calma, della pazienza, i ritmi meno frenetici, le strade mezze vuote le poche volte che esco, i film in tv, le letture, il caldo di un ambiente domestico che, tra l’altro, ha accolto una nuova presenza che è diventata fissa: il mio compagno che si è aggiunto al nostro nucleo familiare che ha assunto così un nuovo assetto. Abbiamo avuto modo di scoprirci, di capire come funzionare, di provare incastri, frizioni, nuovi equilibri.

Non ho cucinato ecco, a questo non ho ceduto, perché proprio non fa parte delle mie inclinazioni… niente pane torte biscotti lasagne, anche se qualche chilo sono riuscita a prenderlo lo stesso, e non mi dispiace troppo.

Nel mentre le notizie quotidiane sui decessi e i contagi, i nuovi dpcm con continui cambiamenti di divieti sono entrati in casa senza scalfire quasi mai la serena certezza che fosse la cosa giusta da fare: rispettare le regole, attendere, godere di quel che si ha con la certezza che potrebbe sfuggire in ogni momento.

Un anno per sedimentare le tempeste affrontate negli anni precedenti: incidenti, interventi, poi separazione e divorzio, vendita casa, ristrutturazione, trasloco (due traslochi)… quanta bufera, quanta neve, quanti terremoti trambusti e scossoni negli ultimi quattro anni. La mia vita, incessantemente battuta dal vento, ha trovato uno spazio di pace, proprio nel 2020. Che cosa bizzarra. Lo so, magari ricorrere a una pandemia non era proprio indispensabile, ma lo stop che ha imposto a tutti e a tutto a me è servito. E ne voglio fare tesoro.

Perciò, anno vecchio che ci hai appena lasciato, non ti maledico affatto. Che poi è solo una convenzione, lo sappiamo, gli amati romani fissavano altrove il cambio dell’anno e tutto sommato credo avessero ragione loro, come al solito, attribuendo al solstizio d’inverno il passaggio, il “sol invictus”. Ma fare bilanci è una cosa umana, normale, quindi un momento va pur trovato.

Mi sono mancate le cene con gli amici, le serate a teatro, al cinema, le mostre, gli aperitivi, le presentazioni di libri, i viaggi, mi sono mancati molto quelli. Girare per città o paesi, mai viste o luoghi del cuore, arrivarci in treno, un week-end a Roma o Milano, un aereo, un traghetto. Gli aspetti positivi che riesco a vedere, e che apprezzo, non cancellano comunque le limitazioni che ho percepito anche io, fortemente, seppur ho avuto la fortuna di poter sempre lavorare e di avere con me le persone che amo.

Un anno iniziato con la morte della mia nonna adorata, a soli sei mesi da quella di mio padre; mesi di assenze che hanno pesato più che mai, che si sono fatte però presenze quotidiane, e notturne: sogno il mio babbo e la mia nonna quasi ogni notte, dono gradito che mi permette di avere sempre nel cuore le loro voci, i loro gesti, come se non si fossero mai spenti.

Un anno di coronavirus è quasi passato, spero adesso che arrivi il tempo di tornare alla “normalità”: quella che tante volte detestiamo, quella che ci pesa, quella che non ho mai un attimo di tempo, quella che magari poter stare un po’ a casa tranquilli… a scrivere, a leggere, a seguire i figli, pulire casa e guardare la tv.

Ecco, adesso le abbiamo fatte queste cose, spero che arrivi il tempo di tornare ad assembrarci, ovvero a vivere da animali sociali quali siamo. Ne abbiamo tutti bisogno: per lavorare, per divertirci, per vivere.

Senza esagerare però, che io a casa con le persone che amo e con il mio cane ci sto bene. Parecchio.

Ritorno al passato (con il pilates)

Non sempre provare qualcosa di nuovo è la cosa migliore. O meglio, a volte è semplicemente la migliore occasione… per tornare a quel che si è lasciato.

Nel mio caso specifico parlo della decisione di fare per un anno e mezzo acqua gym. Ho già spiegato il perché di questa scellerata scelta (qui: https://francescapetrucci.it/2019/04/05/acqua-gym-una-scelta-non-del-tutto-consapevole/), anche se devo ammettere che in quel momento, uscita da due interventi neurochirurgici a seguito di duplice frattura delle vertebre lombari non è che avessi poi tutta questa gamma di possibili attività fisiche, esclusa la fisioterapia di cui ne avevamo abbastanza sia io che il fisioterapista.

L’unica salvezza, mentre tentavo di eseguire gli esercizi nell’acqua ghiaccia marmata  della piscina comunale, si tratta di atti eroici, ne converrete, è stato il gruppo di donne che componevano il corso. Raramente ho trovato tanta accoglienza, armonia, offerta di amicizia e solidarietà totalmente gratuite e generose verso una perfetta sconosciuta. Ecco, non veder loro mi dispiace davvero perché compagne di corso così non se ne ritrovano facilmente. Ma tutto, si sa, non si può avere e, mentre loro posso continuare a vederle o sentirle, io di rimettere piede (gambe, pancia, schiena e tutto il resto) nella vasca, dove potrebbe tranquillamente sguazzare un’orca senza percepire differenza di temperatura alcuna con il mare del Nord, proprio non me la sentivo.

Senza fare nulla non ci posso stare, questo è sicuro: ne ho pagate care le conseguenze a fine estate, dopo aver oziato, fatto chilometri in macchina e soprattutto con un bracco di 40 chili al guinzaglio che tira come un mulo mi sono ridotta agli antinfiammatori se la mattina volevo scendere dal letto senza l’aiuto di un sollevatore.

Da tempo sentivo nostalgia, oltre naturalmente che per l’equitazione, anche per la danza: un’attività che ho praticato per dodici anni e che mi ha lasciato, a parte i famosi piedi a papera e collo del piede ricurvo, bellissimi ricordi. Per anni, dopo avere lasciato le scarpette da punta ho praticato il pilates, con enormi benefici fisici e mentali. Dopo gli interventi ci avevo riprovato una volta, rendendomi conto però di non essere in grado di eseguire gli esercizi, con delusione e amarezza avevo abbandonato l’idea.

Durante il lock-down però, ho seguito qualche lezione che mi inviava un’insegnante di danza con cui ho fatto pilates per due anni e che, strane coincidenze della vita, è titolare della scuola dove mio figlio fa break dance.

Sai che c’è, mi sono detta a settembre, io provo, al massimo vedo che non ce la faccio a seguire un corso intermedio, e ciao. Ho parlato con l’insegnante Martina, e, come sempre ottimista e sorridente, mi ha detto te prova, poi si vede.

Le prime lezioni sono state faticose: in effetti la mia schiena, priva di curva lombare e con la flessibilità di un piano di marmo, non si è mostrata troppo collaborativa. Ma chi la dura la vince e aver avuto a che fare per tanti anni con cavalli maremmani e bracchi una qualche capacità di perseverare te la conferisce. Sono molto contenta di questa scelta, rimettere piede in una scuola di danza e in una sala di danza è stato emozionante, e rigenerante.

La luce, le pareti di specchio, il parquet a terra, le sbarre: tutto mi ricordava un passato fatto di ore e ore trascorse a faticare a quella sbarra, certo, a fare un’altra attività che in vita mia non rifarò mai più, credo, ma la sensazione positiva e il benessere sono stati immediati.

Il pilates è un’attività diversissima dalla danza classica, questo è giusto precisarlo, ma si avvicina un po’ alla danza contemporanea, che pure ho amato molto, soprattutto se l’insegnante ha appunto una formazione classica, che io apprezzo moltissimo e peraltro a mio avviso si tratta senz’altro di una marcia in più. Non sono ancora in grado di eseguire tutti gli esercizi, e di alcuni faccio il livello base anziché quello intermedio o avanzato, ma non importa. Ci arriverò, piano piano, con la “duraggine” che sempre mi caratterizza in quello che faccio.

Forse alcuni non potrò mai più farli, tipo quello che ho scelto per la foto di copertina, giusto per ricordarmi di non prendere troppo gallo!, ma anche questo fa parte del gioco e va accettato: intanto mi godo la soddisfazione e la bellezza di essere tornata nell’atmosfera di un passato che ho amato molto. A volte riassaporare qualcosa del nostro passato è il miglior modo per guardare al futuro. Ero convinta che le emozioni legate al mondo della danza restassero confinate appunto nel cassetto dei ricordi, e invece si sono riaffacciate, seppur in veste diversa, nel presente.