Decalogo dell’abbandono

Quando qualcuno ti lascia dovresti fare una cosa soltanto: sparire.
Quando qualcuno ti dice che non vuole più stare con te vuol dire che non vuole più stare con te. Non che vorrebbe tanto ma non ce la fa…che sei un grande amore, ma non se la sente di portare avanti questa storia perché poi in futuro potrebbe farvi soffrire. O andare a finire male e allora tanto vale non andare avanti affatto.
Quando qualcuno ti lascia vuol dire, in teoria, che ha valutato tutto, tentato tutto, in misura naturalmente di quelle che sono le proprie capacità, possibilità e soprattutto volontà, e alla fine di questa valutazione ha deciso che… non ne vale la pena. Tu non ne vali la pena.
Il gioco non vale la candela. Non ci sono i presupposti, rischiare non vale quel che si potrebbe vincere, in parole povere.
È un concetto piuttosto semplice, lo capisce anche un bambino di sei anni, se glielo spieghi così.
Eppure, quando qualcuno ti lascia, la verità è che te ne fotti di tutto questo ragionamento, e delle regolette che magari tu stesso fino a quel momento hai sempre applicato, nonché consigliato, anche con una certa perizia e ottime capacità argomentative.
Quando qualcuno ti lascia ecco che cosa succede, davvero.
Succede che tu non ci credi, prima, poi ti dici che senz’altro hai capito male, e quindi ri-chiedi, poi passi alla fase in cui vuoi argomentare, perché sei certo che spiegando parlando e dirimendo le cose si posso risolvere. Se sei abbastanza fortunato il lasciante ti fa il dono di ridirti che non vuole più avere a che fare con te, magari con buon garbo, degno di un lucchese, e modi gentili, degni d’un torinese: falso e cortese.
A questo punto il lasciato dovrebbe aver compreso che sì, le cose stanno così: sei stato lasciato, prima lo capisci, prima ti rassegni e meglio è, soprattutto per te. Ma spesso, purtroppo, nei fatti anche qui le cose vanno in modo diverso.
L’altra regoletta d’oro vorrebbe infatti che ci si attenesse alle parole, o meglio ancora ai fatti, e non ci si attaccasse invece ai non detti, ai forse ha detto/scritto questo ma intendeva l’opposto, oppure ancora mi dice così perché desidera che faccio cosà. NO. Ti dice così perché le cose stanno così. E se così non è, alla fine, è un problema suo perché il mondo è pieno di guerre scatenate da problemi di comunicazione, figuriamoci se c’è bisogno di inzupparli anche nelle relazioni personali.
Ecco, con gli animali è più facile: se un cane ti scodinzola, abbassa la testa e ti viene incontro vuol dire che vuole un contatto con te. Se invece tira indietro le orecchie e solleva il labbro emettendo un suono sinistro vuole dire che te ne devi stare alla larga. Funziona. In questo caso la comunicazione funziona, chiara, lineare, diretta. Perché per gli esseri umani non è così?
Ci sono poi regole che, ti suggeriscono, hanno a che fare con la dignità e l’orgoglio. Ti ha lasciato? Non ti merita! Non ti vuole più? Non sa cosa si perde! Non ti vuole nemmeno incontrare per dirtelo di persona? Sai quanti ne trovi di meglio! Ecco, anche tutte queste belle cosette qui, non funzionano. Non è debolezza, è forza: chi è forte non ha paura di mostrare le proprie fragilità, non ha paura di piangere, di chiedere, perfino di supplicare; non ha paura di amare. Anche se rischia di farsi male, anche se è certo che se ne farà: non importa. Chi è forte non fugge, neppure di fronte al dolore, se lo prende come una fucilata nel petto e se lo porta dentro: una ferita diventa medaglia.
Perciò se ti ha lasciato una persona a cui tenevi davvero, dell’orgoglio non te ne frega nulla, se ritieni, nel tuo cuore, di avere ancora parole, e soprattutto gesti, da mettere in campo le regole non contano. Conta il fatto che non sei pronto a mollare, e che vuoi poterti dire un giorno: ho fatto tutto quello che era in mio potere. Perché la vita non è una corsa che si vince o si perde a tavolino, per sapere come andrà occorre buttarsi in pista e correre più veloce che si può. Non importa se si perde: nella vita tanto, alla fine, si perde sempre. O forse si vince sempre, se si vive qualcosa che ci rende felici, che ci arricchisce, che ci fa sentire vivi. Anche per un giorno in più. Anche per una sola ora in più.
Rinunceresti a goderti un tramonto perché dopo arriva la notte? Rinunceresti alla vista di una cima perché la sera senz’altro faranno male le gambe? E all’emozione di un galoppo, perché la tua schiena ti chiederà il conto? Tutto quello che siamo, che facciamo, presenta il suo conto.
Non è fatalismo, è accettazione di un principio semplice, ma fondamentale: la vita la vivi in campo o stai in panchina. Punto.
Ci sono occasioni in cui scegliere la panchina è saggio e giusto: perché ci si deve riposare, riprendere fiato dopo un lungo sforzo, perché si ha bisogno di un tempo per chiarirsi le idee e decidere la prossima strategia. Oppure perché si sa di avere una partita più importante da giocare e quella che si ha davanti non vale la pena, non vale la pena di stancarsi, magari rischiare di farsi male. Il pensiero è già altrove.
Ma non tutto è negativo, per chi viene lasciato, ci sono punti a suo vantaggio.
Innanzitutto non deve portare il peso di una scelta, che non ha compiuto, non che accettarla sia facile, tutt’altro, ma non comporta il fatto di doversi far carico del dolore dell’altra persona. Non è poco.
Si può perdere il sonno, la fame, ci si può domandare mille e mille volte dove non si è capito, ma poi ci si rassegna. E arriva la serenità, o almeno una parvenza. Un soffio di leggerezza che ti spiega che non potevi comunque farci nulla, più di quello che hai fatto fregandotene di tutte le regole che il decalogo dell’abbandono vorrebbe imporre. Essertene fregato e aver mostrato solo amore, apertura, possibilità, ti sarà d’aiuto a questo punto. Perché saprai che più di questo non era nelle tue possibilità fare. Ed è una cosa importante nella vita: dire ho perso la corsa, ma nelle gabbie ci sono entrato e al via ho corso più veloce che ho potuto. Non ho perso a tavolino, ho rischiato. Sì, forse sapevo che avrei perso, ma c’ho provato, sono caduto, mi sono fatto male, ma so che mi rialzerò. Con qualche osso rotto, la testa confusa, i muscoli dolenti, la sconfitta che brucia. Ma sarebbe bruciato di più non averci provato.
Ecco allora che alla fine, in questo breve “decalogo dell’abbandono”, altro non mi sento di consigliare se non di seguire il proprio cuore. Giusto, sbagliato, non importa. Perché alla fine di tutto, quando la sconfitta brucerà meno, quando le ossa si saranno risaldate, le ferite chiuse, i muscoli riposati, alla fine di tutto non è a te che resterà l’amaro in bocca, e soprattutto mai e poi mai nel resto dei tuoi gironi dovrai convivere con quella subdola domanda: ma se ci avessi provato… se ci avessi creduto un po’ di più, e quella partita l’avessi giocata invece di decidere di non farlo perché tanto sapevo di perdere, che cosa sarebbe successo?
Ecco, chi sceglie di non giocare, non lo saprà mai.
E questo in realtà vale anche per chi lascia, anche se sembra assurdo: lasciare per sopravvivere, lasciare quando si è tentato tutto, lasciare quando si è certi di aver detto provato cercato ogni via e si è fallito. Allora, sì, si rinuncia, caricandosi sulle spalle anche la responsabilità del dolore dell’altro. È senz’altro più difficile, e faticoso. Ma anche per questo vale lo stesso principio: ce l’ho messa tutta. Solo in questo modo il fallimento si trasformerà in pacifica accettazione.
Perciò alla fine, che tu sia lasciato o che sia tu a chiudere, la cosa che conta davvero è la consapevolezza di aver corso più veloce che hai potuto.
Perché l’unico fallimento che brucia davvero, e che resta, è quello di non averci creduto abbastanza.

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