Io sono loro

Spesso, durante le presentazioni, mi è stata rivolta questa domanda: “Scrivi testi autobiografici?”.

E a ruota, in genere, arriva la seconda domanda: “Ma allora quanto c’è di te, del tuo vissuto, in quello che scrivi?”.

Alla prima rispondo con un secco e deciso NO. Alla seconda con un ampio “moltissimo”. Però occorre spiegarsi, e capirsi, meglio.

Ecco, sono due domande profondamente diverse, che solo all’apparenza possono sembrare simili.

Una premessa, prima di tutto, per non incorrere in spiacevoli fraintendimenti.

Non ho nulla contro l’autobiografia, che è un genere letterario di tutto rispetto, con esempi di altissimo livello e che, non a caso, è frutto di continuo studio, sperimentazione, al punto che ad esso è stata intitolato perfino un percorso universitario: mi riferisco alla LUA, ovvero la “Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari” (lua.it), una scuola che offre appunto progetti, seminari, laboratori. Una roba seria insomma, negli anni si è costituito attorno a questo centro una comunità di ricerca, di formazione, di diffusione della cultura della memoria in ogni ambito, a cui partecipano centinaia di persone. Si parla dell’arte della “scrittura di sé”, che include l’apprendimento di principi, metodi, sviluppi della “pedagogia della memoria”. Lungi da me, dunque, sminuire chi sceglie questa via. Mi permetto, però, questo sì, di far presente che chi intende seriamente scrivere autobiografia dovrebbe quanto meno prendere in considerazione il fatto che non significa sono bello, sono ganzo, c’ho un ego che ci vuole uno scuolabus per portarlo in giro quindi scrivo di me perché niente al mondo c’è di più interessante. Ecco, non è questo che intendono esattamente con “pedagogia della memoria”, quelli che ci bazzicano sul serio.

Ma, tralasciando quelli che vanno in giro con l’autobus dell’ego da scaricare poi sulle pagine dell’ennesimo libro sedicente “autobiografico”, e tornando alla domanda iniziale, dunque, la mia risposta è NO, perché quando scrivo non sono io la protagonista, non si tratta di un percorso interiore, da rovesciare sulla carta, quello che intraprendo, ma, al contrario, l’operazione è esattamente opposta. Ovvero quella di uscire da sé, dal proprio sentire, dal vissuto, dall’ordinario, per diventare altro e, soprattutto, altri. Calarsi completamente nella vita di qualcun altro. Che da me è diverso: perché è un uomo, per esempio, o perché è un bambino, o un anziano, un cane, un cavallo, un delinquente, uno o una straniera.

E io non esisto più. Io sono lui, lei, loro, io sono una, cinque, dieci, cento persone, e personaggi, diversi.

È un’operazione faticosa, quella di uscire dal proprio corpo e dalla propria mente, pensare, parlare, decidere, scegliere vivere come qualcuno di cui dobbiamo arrivare a conoscere tutto, a passarci le giornate, arrivando a essere quella persona. O quelle persone.

I personaggi di un libro possono diventare molto invadenti, se li scrivi, e li vivi, così. Non ti danno più tregua, te li trovi a colazione, a pranzo, a cena, in bagno, avanzano pretese, scelte, ruoli che non dovrebbero competergli. Mica semplice tenerli al posto loro. A me non sempre riesce, devo essere sincera.

Una volta ho intervistato, presentando un suo libro, un famoso scrittore e rimasi colpita dalla sua affermazione: “I miei personaggi fanno quello che dico io, su questo non c’è dubbio né discussione”.

Buon per te, pensai, i miei tendono a fare il cazzo che gli pare, però forse è perché gli do troppo spago io, ci mancherebbe.

E qui arriviamo alla seconda domanda, che appunto, è profondamente diversa e forse adesso si capisce meglio il perché.

Qualcuno disse “si finisce sempre a scrivere di sé”, e questa è una verità. Perché non è facile capire, uscendo da se stessi per entrare nei panni di qualcun altro, quanto di sé ci si porti dietro. Senz’altro molto, anche se non pare. Non solo vissuto, ma anche sogni, proiezioni, fallimenti, inganni, frustrazioni, desideri, verità e bugie. Chi è quel personaggio, quanto di lui c’è in me e viceversa?

E qui, almeno nel mio caso, credo possa venirmi incontro la vasta gamma di patologie psichiatriche di cui può soffrire chi ha il vezzo, o il vizio, di scrivere.

La prima che mi viene a mente, così, su due piedi, è il disturbo di personalità.

Non si è mai una persona sola, in fondo, e non perché si abbia la classica “doppia faccia” nel senso negativo del termine, no, non è una cosa che ha a che fare con la mancanza di trasparenza o di sincerità. È proprio uno sdoppiamento, o striplicamento o squadruplicamento e via così, di personalità.

Quindi sì, alla seconda domanda rispondo che c’è sempre qualcosa di me in quello che scrivo, nei personaggi che invento: è solo che poi dovrei spiegare, e talvolta non è certo la cosa migliore da dire in pubblico, che non saprei di quale delle sei o sette Petrucci potrebbe trattarsi. Che poi ciascuna di loro, a sua volta, ha degli alter ego, e la cosa si complica assai.

Però a voi, che siete persone intelligenti e soprattutto comprensive e riservate, lo posso dire: io sono loro, tutti loro, e loro, in fondo, sono me.

È questo, forse, il motivo per cui si scrive. Perché siamo troppi, e nessuno.

«Io non l’ho più questo bisogno, perché muojo ogni attimo io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori». Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila

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