Un anno è passato, da quando non ci sei più, nonna Rina cara.
Sono successe diverse cose, in questo anno, tu hai chiuso gli occhi l’8 gennaio del 2020, proprio pochi giorni prima che scoppiasse questa pandemia, che da un anno tiene in pugno il mondo intero; uccide, affama, ferisce, divide, spariglia.
Sono felice che tu non l’abbia vissuta, per quanto, nella tua incoscienza di bambina quasi centenaria, non te ne saresti accorta. Ma saresti stata un bersaglio facile, per la tua fragilità, e l’idea che ti portassero via, in ospedale, da sola, per non rivederti e finire il tuo tempo in una corsia senza poterti dare neppure un ultimo saluto mi ha spesso sfiorata. Non è andata così, per fortuna, a volte le cose hanno un disegno, se hai la fede lo chiami così, oppure è solo il caso, o forse un destino lo abbiamo tutti, sia che sia il frutto del progetto di un dio che tutto vede e provvede, oppure appunto soltanto un giro di giostra che si ferma dove capita, e a chi tocca scende.
Fino al giorno di Natale sei stata bene, senza mai chiedere neppure una volta di mio padre, tuo figlio: perché non fosse più a casa. Abbiamo pensato, sperandolo, che tu non ti fossi resa conto di nulla: una madre non dovrebbe mai vivere la morte del proprio figlio. Abbiamo pensato così, ma forse, chissà, ci siamo sbagliati.
Quel giorno di Natale ti sei seduta a tavola e ti guardavi intorno, ci guardavi, e non dicevi niente. A metà pranzo hai detto che non avevi più fame e volevi andare a riposarti, una cosa insolita, perché la compagnia ti è sempre piaciuta, sgranocchiare qualche dolce, bere il tuo bicchiere di vino.
E invece sei voluta salire prima in camera tua. E non sei mai più scesa.
Hai smesso di mangiare, di bere. Lo hai fatto con serenità, con equilibrio, in silenzio, con l’eleganza che sempre ti ha caratterizzato.
Abbiamo cercato di nutrirti, prima con frullati a piccoli cucchiaini.
– Scimmia – ti ho sempre chiamato così, e ormai era il nostro codice.
– Dimmi cocca.
– Ma ti ricordi quanto mi hai imboccata da bambina? – e intanto ti infilavo il cucchiaino in bocca che, ubbidiente, accettavi.
– Eh cocca….quanto ti ho imboccato, non mangiavi niente…
– E adesso tocca a me imboccarti, vedi com’è buffa la vita? – e intanto ti rifilavo un altro cucchiaino, proprio come facevi tu raccontandomi le storie.
Stavi nel tuo letto tranquilla, senza lamentarti, senza chiedere niente. Ti lasciavi pulire, cambiare, come una bambina appunto.
Il problema erano le piaghe, che rapidamente si stavano ampliando, sulla tua pelle sottile come il vetro, quasi trasparente.
Il problema, soprattutto per mia madre, era anche un altro: la badante.
Come spesso accade nelle situazioni tragiche, c’è stata una nota comica.
La badante “ufficiale” era in Polonia per le feste, avevamo dunque trovato una sostituta momentanea, “raccomandata” da un’amica di un’altra…insomma le classiche vicende che chi ha a che fare con le badanti conosce molto bene.
La sostituta era silenziosa, ma essendo come sempre in casa nostra bene accolta e trattata come membro della famiglia sembrava a suo agio, e si dava molto da fare. Solo lo sguardo era “strano”, da bestia che si è persa e non sa dove trovare riparo per la notte.
Il 2 gennaio, di prima mattina, mi chiama mia madre e mi dice:
– Vieni, non riesco a svegliare A.
– Come non riesci a svegliarla… in che senso?
Nel senso che era tornata la mattina presto (il primo dell’anno era stato giorno festivo ovviamente) e si era messa a letto senza alzarsi.
Siamo messi bene.
Mi precipito a casa e salgo in camera: la chiamo, la scuoto leggermente, nulla.
Telefono al nostro amico medico, lui e la compagna due angeli che sempre ci sono stati accanto anche nella vicenda di mio padre: con la consueta disponibilità si impegnano a passare subito.
Mi siedo in cucina, nonna cara non te ne avere a male, e ci mettiamo a ridere: io, mia madre, il mio compagno. Che situazione assurda: la nonna immobilizzata a letto, la donna pure, nella stanza di fronte. E ora che si fa?
L’amico medico ci dice subito che va chiamata un’ambulanza, A. non risponde e non reagisce, c’è poco da fare.
Arrivano quelli della Misericordia, salgono le scale e si trovano di fronte due stanze con due donne a letto. Ci guardano un po’ smarriti: – Ma quale dobbiamo prendere? – fa una ragazza.
– Quella giovane, qui a sinistra, la nonna lasciatela stare che sta bene così.
Siamo venuti a sapere poi il motivo di questo strano malessere di A.: coma etilico, con un rinforzo di psicofarmaci. Non posso negare che alla fine abbiamo provato pena per questa donna, e abbiamo cercato, senza però riaccoglierla in casa, di darle un aiuto. Tu avresti voluto e fatto così nonna, non ho alcun dubbio.
Di certo, però, ci ha lasciato nei guai, in un brutto momento: siamo rimasti senza badante, e senza aiuto, con te allettata, da cambiare, da lavare, da cercare di nutrire, con le flebo, con piccoli cucchiaini di te ben zuccherato, che rifiutavi con cortesia e educazione.
Ecco, posso dire con certezza perché ho avuto la fortuna di esserti accanto, che fino all’ultimo tuo respiro hai trattato gli altri con garbo e gentilezza.
Era un mercoledì mattina, come l’ultimo giorno di babbo, nel quale però avevo fatto l’errore di passare a casa, ma poi andare in ufficio. Quella mattina invece dissi a mia madre che restavo, che non sarei andata a lavoro, anche per aiutarla a cambiarti e lavarti.
Sei sempre stata una donna molto magra, e molto bella, ma alta, anche se longilinea, quindi comunque una persona da sola non riusciva a sistemarti.
Così quella mattina, prima delle nove ti abbiamo lavata, cambiata tutta, incremata e improfumata, ti chiedevo di aggrapparti alla mia spalla e poi di girarti, su un fianco, sull’altro, e tu sempre dicevi “grazie”, “scusate tutto questo disturbo”.
Finalmente abbiamo finito, e possiamo lasciarti in pace, fai un bel sospiro, mi chino per baciarti e abbracciarti e chiederti se stai bene messa così.
Fai di sì con la testa, ancora ringrazi, e poi uno strano gesto: afferri con le dita affusolate la mia collana, e cominci a girarla, e mi guardi.
– Nonna, vuoi il tuo rosario? Vuoi dire le preghiere?
– Sì cocca.
Te lo prendo, lo stringi e sospiri in pace. Mi siedo accanto a te, mi porgi la mano.
Fai un sospiro più lungo e chiudi gli occhi.
Serena, nel tuo letto, con la mano nella mia mano, saluti questo mondo dove sei stata per quasi cento anni, novantotto per la precisione.
Nonna Rina è stata per me come una seconda madre, dato che ha sempre vissuto con noi, fin da quando mio fratello e io siamo nati. Si è sempre occupata di noi, dedicando la sua vita al marito, alla famiglia, al figlio Sem, e poi ai nipoti.
Non era una donna fragile, affatto. Nonostante l’apparenza elegante e leggiadra, i modi di una educazione rara, non ho mai sentito alzare il tono della voce o dire una cosa sgradita di qualcuno, era una donna austera, autoritaria e poco incline a sentirsi dire di no. In poche parole, comandava lei. Almeno in casa.
Erano donne, quelle come lei, che hanno fatto la guerra, poco più che ventenni, sulla Linea Gotica (la nonna era nata e cresciuta a Lamberti, sotto l’Abetone) con bimbetti piccoli in casa e i tedeschi fuori dalla porta.
Erano donne, quelle come lei, che non si scomponevano di fronte a niente, che con “mi scusi, per favore e grazie” attraversavano a testa alta un plotone di soldati, così come le difficoltà della vita.
Erano donne come forse oggi non ce ne sono più, ma il loro sangue, il suo sangue, scorre nelle nostre vene, nelle mie vene. I suoi insegnamenti, la sua curiosità e innata eleganza, l’amore per le cose belle, per gli animali, la capacità di aiutare gli altri, sempre, sono eredità che mi ha lasciato, e che mi accompagnano ogni giorno e di cui cerco di fare tesoro prezioso. Non sempre riesco.
“A chi ti porge la mano, cocca – mi dicevi – non dire mai di no. Perché una mano lava l’altra, e tutte e due lavano il viso”.
Le tue mani mi hanno lavato, nutrito, accarezzato, accudito, sculacciato, non di rado, nonna adorata, per mano mi hai accompagnato tante volte, e io sono felice che tu abbia lasciato questo mondo stringendo la mia, di mano.