Lo so, detta così pare una bestemmia. Ma non è che sono contenta che ci sia stata una pandemia, con tutte le vittime, le tragedie, personali, sociali, economiche, non sono contenta affatto di questo. Volevo dire un’altra cosa. O almeno provarci.
Volevo dire che in questo lungo periodo, ormai quasi un anno, caratterizzato da due lockdown, con una lieve parentesi estiva nel mezzo, in cui un minuscolo virus ha cambiato le vite di tutti noi, qualche lato positivo mi sento di evidenziarlo.
E parto, non a caso, dalla scrittura. Per trovare qualcosa di bello, per testimoniare un segno che questi improvvisi e drastici cambiamenti hanno lasciato, almeno nella mia vita. Non è un voler vedere per forza un bicchiere mezzo pieno quando è, inconfutabilmente, quasi vuoto. Ma trovarci costretti a lasciare quasi tutte le consuete abitudini, per rintanarci nelle nostre case, a fare i conti con le quattro mura che ci siamo trovati per scenario su cui proiettare presente e futuro mi ha insegnato a cambiare prospettiva. Si può, e a volte non è affatto male. Io, rigida, programmatrice, che non ama deviare dalla strada tracciata, ancora una volta ho detto ma sì, proviamo, e vediamo come va.
Prima di tutto senza il primo stop non avrei avuto tempo, modo, e forse neppure coraggio, di finire il mio romanzo, Testacoda, terzo della trilogia della “zoomafia” iniziata con Purosangue. Come si dice in Toscana non trovavo il verso di finirlo. M’ero incartata, ottima la motivazione di non avere mai “tempo”, sempre di corsa tra ufficio, casa, figlio, cane… le scuse non mancavano certo.
E invece il tempo all’improvviso si è fermato, si è dilatato, rallentando e cambiando il ritmo alle giornate. E così è arrivato lo spazio per scrivere, correggere, rileggere. Ho finito il romanzo, che è uscito quando le restrizioni hanno allentato un po’ la morsa, e questa estate mi sono potuta godere anche diverse presentazioni – festival, book at home, convegni – sempre con le presenze contingentate e le mascherine, ma è stata una bella boccata di ossigeno. Per poi richiudere i battenti e tornare allo smartworking, alle giornate in tuta-pigiama-tuta-pigiama, a destreggiarsi tra DAD da una parte e meet, zoom, skype e jitsi dall’altra.
Ed è arrivata l’occasione per scrivere un secondo, piccolo, libro, proprio sull’utilizzo della mascherina per i bambini, soprattutto per quelli più fragili: Il cuore non indossa la mascherina. Guardavo mio figlio, tredicenne, vagare per casa in vestaglia, passando da un dispositivo all’altro, dal computer al cellulare, dalla playstation alla televisione: una deriva innaturale, preoccupante. L’unico davvero felice è sempre stato Cirano, #scemocane, che passa le sue giornate al caldo tra poltrona e divano, mai da solo, che è la cosa che odia di più, godendosi lunghe passeggiate quotidiane che fanno bene a me e a lui.
In questo periodo così difficile ho riscoperto il valore della calma, della pazienza, i ritmi meno frenetici, le strade mezze vuote le poche volte che esco, i film in tv, le letture, il caldo di un ambiente domestico che, tra l’altro, ha accolto una nuova presenza che è diventata fissa: il mio compagno che si è aggiunto al nostro nucleo familiare che ha assunto così un nuovo assetto. Abbiamo avuto modo di scoprirci, di capire come funzionare, di provare incastri, frizioni, nuovi equilibri.
Non ho cucinato ecco, a questo non ho ceduto, perché proprio non fa parte delle mie inclinazioni… niente pane torte biscotti lasagne, anche se qualche chilo sono riuscita a prenderlo lo stesso, e non mi dispiace troppo.
Nel mentre le notizie quotidiane sui decessi e i contagi, i nuovi dpcm con continui cambiamenti di divieti sono entrati in casa senza scalfire quasi mai la serena certezza che fosse la cosa giusta da fare: rispettare le regole, attendere, godere di quel che si ha con la certezza che potrebbe sfuggire in ogni momento.
Un anno per sedimentare le tempeste affrontate negli anni precedenti: incidenti, interventi, poi separazione e divorzio, vendita casa, ristrutturazione, trasloco (due traslochi)… quanta bufera, quanta neve, quanti terremoti trambusti e scossoni negli ultimi quattro anni. La mia vita, incessantemente battuta dal vento, ha trovato uno spazio di pace, proprio nel 2020. Che cosa bizzarra. Lo so, magari ricorrere a una pandemia non era proprio indispensabile, ma lo stop che ha imposto a tutti e a tutto a me è servito. E ne voglio fare tesoro.
Perciò, anno vecchio che ci hai appena lasciato, non ti maledico affatto. Che poi è solo una convenzione, lo sappiamo, gli amati romani fissavano altrove il cambio dell’anno e tutto sommato credo avessero ragione loro, come al solito, attribuendo al solstizio d’inverno il passaggio, il “sol invictus”. Ma fare bilanci è una cosa umana, normale, quindi un momento va pur trovato.
Mi sono mancate le cene con gli amici, le serate a teatro, al cinema, le mostre, gli aperitivi, le presentazioni di libri, i viaggi, mi sono mancati molto quelli. Girare per città o paesi, mai viste o luoghi del cuore, arrivarci in treno, un week-end a Roma o Milano, un aereo, un traghetto. Gli aspetti positivi che riesco a vedere, e che apprezzo, non cancellano comunque le limitazioni che ho percepito anche io, fortemente, seppur ho avuto la fortuna di poter sempre lavorare e di avere con me le persone che amo.
Un anno iniziato con la morte della mia nonna adorata, a soli sei mesi da quella di mio padre; mesi di assenze che hanno pesato più che mai, che si sono fatte però presenze quotidiane, e notturne: sogno il mio babbo e la mia nonna quasi ogni notte, dono gradito che mi permette di avere sempre nel cuore le loro voci, i loro gesti, come se non si fossero mai spenti.
Un anno di coronavirus è quasi passato, spero adesso che arrivi il tempo di tornare alla “normalità”: quella che tante volte detestiamo, quella che ci pesa, quella che non ho mai un attimo di tempo, quella che magari poter stare un po’ a casa tranquilli… a scrivere, a leggere, a seguire i figli, pulire casa e guardare la tv.
Ecco, adesso le abbiamo fatte queste cose, spero che arrivi il tempo di tornare ad assembrarci, ovvero a vivere da animali sociali quali siamo. Ne abbiamo tutti bisogno: per lavorare, per divertirci, per vivere.
Senza esagerare però, che io a casa con le persone che amo e con il mio cane ci sto bene. Parecchio.
E’ questa la nuova normalità. In fin di vita il covid 19, arriva la variante inglese, poi quella sudafricana, poi la brasiliana, poi quella napoletana. E poi? Conta i paesi e vedrai che ne avremo per anni, ne avremo per sempre, finché saremo pronti a rinunciare alla nostra vita per una sepoltura prematura in casa, da vivi, da walking dead. Abbiamo salvato qualcuno? Chi abbiamo salvato? Siamo a quasi 100mila morti, morti soli e abbandonati, la peggiore delle morti, senza nemmeno una benedizione, per chi ci crede, poi. E tutti i morti per infarto e tumore di quest’anno? abbandonati senza cure o visite o interventi? E quelli che si sono suicidati perché hanno perso il lavoro e la dignità? Ma chi cavolo abbiamo salvato facendo le pizze e ascoltando musica nel tepore delle nostre case? Ma chi cavolo abbiamo salvato?
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