Son giorni strani, quelli che avviano il passo verso l’anniversario della morte di qualcuno che non ti sembra vero che non ci sia più. Perché non esserci significa non esistere, o forse non essere mai esistito, non aver lasciato nulla, non manifestarsi in alcun modo nella vita di qualcun altro.
La morte, nessuno ce la spiega. Non ce la spiega la fede che, per i fortunati che ne sono illuminati, ci chiede soltanto di credere: che ci sia un aldilà, migliore, più elevato, più libero del mondo in cui viviamo; ci chiede di credere che i nostri morti ci guardano, dal cielo, pregano per noi, vegliano sulle nostre vite.
Non ce lo spiega la scienza, con tutti i suoi progressi, tutte le sue presunzioni, eppure se la interroghi sul perché un essere vivente si trasformi improvvisamente in cadavere e cessi di camminare, respirare, sorriderci, parlarci, non lo sa proprio motivare. E gli atei, gli agnostici, che pensano sempre di avere la verità in tasca, che cosa ci possono raccontare della morte? Non siamo niente, risponderanno, e semplicemente tali continuiamo a essere, con grande coerenza almeno, anche dopo la morte: niente. Ma, se così fosse, come può un “niente” lasciare segni tanto profondi? Come può rivelarsi continuamente, in gesti, situazioni, persone, perfino nei sogni? Fa tutto la nostra mente? Be’ anche in questo caso, tanto “niente” non può essere una macchina così incredibile, capace di produrre una gamma tanto vasta e complessa di emozioni, pensieri, odori, sensazioni. Non siamo niente, nella vita come nella morte. È questa la verità?
La verità, a volte, non è l’obiettivo cui tendere. La verità, a volte, non ha un solo volto: mille e mille facce può rivelarci, e chi ce lo sa dire se una sia più “vera” dell’altra? E quale?
“Quid est veritas” chiede Pilato, che era un uomo assai più saggio di quello che la tradizione ci ha voluto far credere, a Gesù (Giovanni, 18,38). È significativo, in questo come in molti altri casi, rifarsi all’etimologia della parola “veritas”, a tutt’oggi ancora discussa e incerta: con questo termine i romani traducevano la parola greca ἀλήθεια, che ha però una derivazione, e una natura, del tutto diversa. Nel concetto greco, “vero” è ciò che “non è nascosto (λανθάνω significa appunto “sono nascosto”), la verità nel mondo greco ha a che fare dunque con un “disvelamento”, con qualcosa che esce dal nascosto per rivelarsi.
La parola latina pare invece rifarsi al sanscrito “varami” che significa “scelgo, voglio”, oppure, secondo un’altra teoria, alla radice “var” dello zendo (la lingua dei testi sacri zoroastriani dell’antico Iran) che vuol dire “credere”.
Non volendoci addentrare qui in ricerche glottologiche, che pure mi affascinano enormemente e sono state per tanti anni il pane che ha sfamato i miei denti, la riflessione che nasce relativamente al concetto di “vero” ha a che fare da un lato con qualcosa che “si rivela”, dall’altro con quello in cui si crede, si desidera credere.
Questo significa che l’uomo da sempre si interroga su questo concetto, ovvero su che cosa sia la verità, senza mai essere riuscito a trovare una risposta efficace, risolutiva, univoca. Nonostante i secoli passino infatti, e ci si creda oggi pari agli dei perché solchiamo cieli e mari, la risposta a questa eterna domanda non l’ha ancora trovata nessuno. Nemmeno i più grandi, nemmeno i più intelligenti, i più illuminati di ogni tempo.
Anzi, i saggi e i filosofi ci invitano a considerare da sempre la possibilità che la verità si possa trovare a patto di essere disposti ad abbandonare le proprie certezze: “Non troverai mai la verità, se non sei disposto ad accettare anche ciò che non ti aspettavi di trovare”, ci ammonisce Eraclito.
Che cosa mi aspettavo di trovare, quando mio padre è morto? Mi domando oggi, mi sono domandata ogni giorno, dal 24 luglio dello scorso anno.
Non ho una risposta, chi sono io per poterla trovare? Non ho una risposta per la morte, e neppure per la vita. Come tutti gli esseri umani, è una domanda che mi pongo fin da quando ero bambina e che, al pari degli altri, sono destinata a continuare a pormi, fino all’ultimo dei miei giorni. Dopo chissà. Magari basterà smettere di respirare, chiudere gli occhi perché tutto ci sia chiaro, ma questo non lo possiamo sapere. Non ancora.
Quello che possiamo sapere della morte è soltanto ciò che resta della vita di chi ci lascia nella nostra. Forse è questa, davvero, l’unica certezza cui possiamo appellarci. Per non impazzire, per non cadere nel vortice delle domande per le quali una risposta non la possiamo avere. Perché siamo esseri umani, e non dobbiamo mai ergerci al livello degli dei, che puniscono con severità il peggiore dei peccati: la ὕβϱις, ovvero la “tracotanza”, “superbia”, “prevaricazione”.
Limitiamoci al nostro livello, non cerchiamo di capire la morte, o la vita, crediamo a ciò che si “svela”, prendiamo ciò in cui crediamo per vero.
Io ho pensato, in questi mesi, che questa possa essere una buona strada.
Siamo noi, la risposta; è la nostra vita stessa, in cui dobbiamo cercare un senso alla morte di chi si ama.
Una cara amica mi ha chiesto al telefono proprio l’altro giorno: “Ti manca molto Sem?”. Ci ho pensato a lungo, prima di rispondere. La persona che me lo ha domandato conosceva molto bene mio padre, e ha capito il senso profondo della mia risposta: “Sai, in realtà pensavo che almeno da morto avrebbe smesso di rompere le palle, e invece nulla: è peggio di prima”.
Non è passato un giorno, forse neppure poche ore, senza che avesse da dire la sua su qualsiasi cosa; se mi sono trovata indecisa su una scelta, come quella, difficilissima, di vendere l’amato Velluto, mi è comparso in sogno per dirmi di farla meno lunga, con questo cavallo, di venderlo e basta. Non passa giorno senza un ricordo, un aneddoto, un suo modo di dire, una battuta. Non c’è scelta nella quale non mi consulti con lui, sapendo per certo finiremo per litigare, su tutto, come sempre abbiamo fatto. Non passa giorno senza inciampare in un libro, un oggetto, un qualcosa che mi riporti con la mente e il cuore alla sua figura.
Non vivo di ricordi, sono loro che si insinuano dappertutto, mischiandosi con il presente, formando un amalgama inscindibile che si spalma su ogni nuovo giorno.
La verità, dunque, sulla vita, sulla morte, nessuno ce la potrà mai svelare, quello che possiamo fare è accettare di trovarla laddove non ce la aspettiamo, senza pretendere di capire; di lasciarla entrare e circolare liberamente per la nostra mente e il nostro corpo, come se fosse la padrona, come se fosse un refolo di vento, che si insinua dappertutto: compie il suo mulinello e poi se ne va. Per tornare quando gli pare, senza chiedere il permesso, senza avvisare, né del suo arrivo né della sua partenza.
Un ospite indisciplinato, la verità, che non ha la minima intenzione di essere imbrigliato nei piccoli meccanismi del nostro quotidiano.
Un cavallo libero e selvaggio, che corre con la criniera al vento, e dove va, perché un giorno si avvicini fino a sfarsi toccare per poi scappare improvviso e lasciarci un gran senso di vuoto, non lo sapremo mai.
Quello che possiamo fare è scegliere di vedere ciò che si svela, e di credere in quello che abbiamo visto. Se sia questa o meno la verità, in fondo, che cosa ne possiamo sapere. E che cosa ce ne può importare?