Mi sono accorta poi di non aver mai pubblicato nel blog il racconto semi-serio della mia caduta con relativo ricovero e intervento d’urgenza di giugno. Lo faccio adesso: sono passati diversi mesi, nove per l’esattezza, e non lo faccio in un momento a caso. Lunedì sarò di nuovo lì, in neurochirurgia, stessa spiaggia stesso mare, per fare un altro intervento. Stavolta di rimozione di quanto hanno posizionato a giugno. Uno svitamento, in parole semplici: levare quattro viti e due tiranti dalla schiena, e che sarà mai! Intanto una rinfrescata di quel che è stato l’episodio precedente….
Attimi bastano per fermare la tua vita e stringerla come si fa con una mosca intontita. E niente è più lo stesso. Neppure respirare.
Mi ero ritagliata un’oretta per andare in scuderia, è domenica mattina, giugno è appena iniziato. Il tempo di pulire Velluto poi stamani sì, lo monto a pelo, invece di farglieli fare a mano i giri davanti ai box li faccio in groppa a lui, male non gli fa, è fermo da dieci giorni e almeno si muove un pochino. La sella con i punti sotto alla pancia non si può rimettere.
Il clima è allegro, ci sono tutti. “Monta su dai Fra”, il tempo di infilargli la briglia, cavolo almeno quella, avevo pensato prima di girarlo un po’ a mano, tutto sempre al passo, ma almeno vedevo che aria tirava dopo i giorni di pioggia chiuso nel box. Ma quando le cose le fai così, perché ti sembrano normali, non ci pensi, non pensi mica a cosa può succedere. Non pensi che hai appena il tempo di montargli in groppa, qualcuno ti da gamba per salire su, mezzo passo e il cavallo sgroppa, una, due, tre volte, e ti senti sollevare e poi roteare e poi ti vedi cadere, neanche il tempo di offrire la spalla, no, quella che batti forte, sul terreno duro, è la schiena. Sei a terra. Ti si fanno intorno, qualcuno prende il cavallo.
Tutto si ferma. Dolore, dolore, dolore. E resti a terra. A cercare di capire, cosa è successo, a cercare di scoprire che cosa muovi e che cosa no. Le braccia, quelle sì, si muovono, ma il dolore in basso, alla schiena mi leva il fiato. “Muovi le gambe muovi le gambe”. Le muovo le gambe cazzo, la destra, poi la sinistra le muovo. “Allora alzati dai che è la botta”. Passano minuti lunghi come nottate insonni, ma io a muovermi non ci riesco, tutti mi spronano, mi chiedono, mi toccano; va bene provo a sollevarmi. Ci provo, pochi centimetri, ma una fitta come una lama di coltello piantata in mezzo alla schiena mi taglia il respiro, resto in apnea alcuni secondi. Non posso alzarmi. Non posso. Chiamate l’ambulanza.
Ancora minuti, non saprei dire quanti, qualcuno mi copre; il terreno è freddo e umido, e duro, duro e aspro come il rimprovero che mi sale dalla bocca dello stomaco, una boccata di rigurgito acido che brucia quando passa. Stupida, stupida, sei una stupida. Respira. Fa male anche quello. Guardo il cielo – è grigio – da un’altra prospettiva; quanto sono diverse le cose, le persone, gli alberi visti da terra. Tutto cambia. Si rovescia.
Arriva l’ambulanza, mi posizionano sulla spinale, dura come una lastra di marmo, mi legano, mi bloccano, impacchettano come una mummia pronta per il Louvre. Si parte.
Io in ambulanza non c’ero mai stata. Sono gentili, scherziamo, io non so che cosa penare. Le sirene accese, però si va piano, per via delle strade, quante cavolo di buche ci sono nelle nostre strade, maledetto sia il sindaco. Ogni volta che passa un’ambulanza mi faccio subito da parte e penso alla persona che c’è dentro, chi è, che cosa gli è successo, quanti anni ha, sarà giovane o vecchia. Oggi è toccato a me.
Poi tutto è scorso, senza tempo. Né piano né veloce: l’attesa, le domande, le lastre, il dolore, l’attesa, altre lastre, l’ecografia, dolore. Passa il radiologo e mi dice con aria di rimprovero: “te stai ferma e non ti muovere, hai due vertebre rotte e una frattura è brutta”. Bum. Quello che mi crolla sul petto è una lastra, di marmo stavolta, dura come quella su cui sono inchiodata; e preme. Mi sento soffocare.
Io non mi muovo, respiro, ascolto il dolore, e mi calmo. Comincio il mio viaggio a ritroso, dall’esterno si va dentro, piano piano, come una lumaca che struscia sul linoleum liscio del pronto soccorso. Voci, movimenti, tempo che passa, io respiro e viaggio. E prego. Prego il mio dio, ma più che pregarlo gli parlo. Gli dico che io mi sento serena, che non posso e non voglio fare nulla, io non sono nulla. Sono una goccia caduta su una foglia, che scivola piano sul piano inclinato. “Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra”. Recita il Pater Noster. La tua volontà. Così in terra. Io faccio parte della terra, sono una minuscola, insignificante molecolina che è stata posata qui, e che un soffio di vento può spazzare via, mentre tutto il resto continua la sua corsa, la vita. La mia si è fermata.
Arriva una dottoressa, capelli corti, occhiali, parla di intervento, urgente, frammento di vertebra fuoriuscito nell’area midollare. Sono avvolta in una barella come un baco da seta nel bozzolo, mi sento inerme. Il telefono è scarico e inutilizzabile. Chiedo di parlare con i miei familiari che attendono fuori; arriva anche marito che mi guarda con gli occhi lucidi, brevi consultazioni con gli amici medici. La decisione è presa. Anche se volessi andare da un’altra parte non posso essere trasportata, sarebbe rischioso. Parte il ricovero. Leggo preoccupazione, rimprovero, angoscia, tristezza, riesco solo a dire “mi dispiace”. Mi manca il mio bimbo, chissà cosa penserà della sua mamma “cascona”. Un’altra volta, ma stavolta ho fatto un capolavoro.
Le notti in ospedale non passano mai. Fino alle due o le tre dormi, se ti va bene, poi sei sveglio e ciao, aspetti che arrivino le sei. Una suora nella stanza a fianco urla che vede il diavolo, un’altra vecchietta chiama Katia perché lì non ci vuole più stare. Io sono stata fortunata perché come compagna di stanza ho Monica, una donna di 45 anni con più ernie cervicali che dita delle mani. Monica è veterana del reparto di neurochirurgia, è lì da 17 giorni e sa tutto, conosce tutti, orari, abitudini, passaggi. Ci facciamo compagnia, senza mai vederci, io stecchita come un baccalà a pancia in su, lei pure. Mi piace il suo accento carrarino, ha una voce allegra, anche se è una persona che ha sofferto, sorride alla vita, e mi piace.
“Non ti devi muovere fino all’intervento” ecco la ricetta che mi hanno dato la domenica, spiegandomi in che cosa sarebbe consistita l’operazione – rimettere a posto la parte posteriore fuoriuscita, il benedetto frammento, e poi fissare con le placche la parte anteriore fratturata in più punti – “prima che la vertebra sopra ci si appoggi del tutto crollandoci”.
Incoraggiante. L’intervento sembra sarà il martedì, però non si sa chi e quando lo farà di preciso. È domenica, non c’è il primario, occorre attendere almeno il lunedì per decidere. Anche questo è incoraggiante considerando che per andarsi a curare un’unghia incarnita generalmente facciamo (tutti) una ricerca di un mese su tutto il territorio e oltre, cercando di individuare il più affidabile e qualificato aggeggiatore di unghie esistente sulla piazza plurireferenziato e con almeno vent’anni d’esperienza in fatto di unghie. Un intervento del genere invece, la cui elencazione dei possibile rischi fa rabbrividire anche Frankenstein, macché, ci tocca lasciarlo in mano al primo che capiterà.
Eppure io continuo a sentirmi serena, da quei momenti nei corridoi del pronto soccorso ho deciso di affidarmi, agli uomini, a dio, al mio destino, non lo so nemmeno io a chi, certo io non posso cambiare le cose e le mie energie servono per gestire il dolore e cercare di entrare nell’idea che qualcosa si è fermato, la mia vita si è fermata, e non posso farci niente, solo accettare. Incredibile realizzare che strana razza di meccanismo siamo: un attimo prima funziona tutto, l’attimo dopo sei steso su una barella a chiederti com’è che è capitato, com’è che è capitato a te.
Un solo momento di vero cedimento mi sono concessa: quando mi hanno detto che a cavallo non ci potrò più andare o che almeno sarebbe molto prudente e assennato non farlo con una schiena così. “Fortemente sconsigliato”. E poi del resto mia madre in preda alla disperazione me lo ha fatto giurare (giuramento che anche il mio bimbo pretenderà di lì a poco): su quel maledetto cavallo non ci monti più. E io invece ci vorrei montare adesso, aspirare il suo profumo, partire da soli verso San Rossore cantando una canzone, prendere il trotto sui Viali, e poi nel bosco il galoppo, tu-tum, tu-tum, gli zoccoli pesanti sul terreno soffice, daini che si affacciano curiosi per poi sparpagliarsi, uccelli che frullano al nostro passaggio… ma qualcosa si è rotto – e non è solo la mia vertebra L2 – e non posso, non potrò forse mai più, ignorarlo.
Il lunedì mattina arriva dopo tante ore, che poi sono le stesse di sempre ma non ci avevo fatto caso da tempo che ci mettessero così tanto a passare.
Verso le otto si presenta un giovane dottore con barbetta occhiali e camice verde, indossa un’espressione poco decifrabile e mi domanda a bruciapelo:
– Lei è d’accordo a farsi operare signora Petrucci?
Io penso che darsi del lei in una situazione del genere sia veramente strano, poi penso che se anche non fossi d’accordo non so quale altra alternativa potrei avere, alla fine opto per un banale “sì” che il mio dottorino sembra gradire. Ma non avendo evidentemente fugato del tutto le espressioni poco intelligenti mi scappa un:
– Scusa ma te chi sei? – lui mi guarda e con espressione, mi pare, un po’ divertita risponde:
– Sono il chirurgo. – Ora l’espressione divertita ce l’ho io, perché questo bel ragazzo, mi pare appunto un ragazzo ecco, e quindi la seconda domanda imbecille scivola fuori che è una bellezza:
– Senti ma almeno l’hai già rifatto? – non so se gli ho fatto pena o l’ho divertito davvero perché a quel punto ha sorriso e sempre serio e professionale mi ha pure risposto: – Certo, tranquilla, qualche volta.
E sia, preparate la sala! Che detto così sembra una sala per fare una festa e sembra anche che mi debbano fare bella, vestire truccare, che poi insomma preparare ti preparano davvero, ma non è come andare a un ballo in maschera.
Entra la mia mamma più in ansia che mai dicendo “la operano, ti operano…oooooora!”. E io indicando il dottore verde con barbetta che stava dando disposizioni le dico:
– Sì mamma guarda mi opera lui, pensa è al suo primo intervento.
Povera donna se non le è preso un colpo, ha iniziato a balbettare “ma come… ma come… lui… chi è…”. Al che il dottore ha pensato davvero che fossi matta e che forse sarebbe stato meglio un intervento alla testa invece che alla schiena ma ormai andava operata quella e che ci vuoi fare, insomma l’ha rassicurata, sia sul fatto che non si trattava del suo primo intervento sia sul fatto che tutto era pronto e che se anche i tempi non sarebbero stati brevi dovevano stare tranquilli perché era normale.
Normale. Ditemi cosa c’è di normale a ritrovarsi con la schiena spezzata a farsi fare una delicata operazione a bruciapelo.
Mentre entriamo in sala operatoria quello che poi avrei scoperto essere il primario mi domanda come mai sui cavalli ci si monta sempre invece di adibirli al giusto uso ovvero mangiarli. L’ultimo viso che vedo è quello di Lisa.
– Francesca ma sei te? La figlia di Sem?
– Eh sono io, ma abbi pazienza in questo momento non mi viene a mente chi sei…
– Lisa, venivo anche io a cavallo alla Sterpaia ti ricordi?
Sì certo che mi ricordo (ho battuto la schiena, non la testa per l’appunto). Sorrido, penso che la vita è buffa, penso che mi sta addormentando una ragazza della Sterpaia, penso a Corto Maltese, alle nostre scorribande nei boschi, penso alle nostre galoppate matte, penso all’odore del pelo del cavallo, penso… penso… chiudo gli occhi e ciao.
Gambe: le muovo; braccia: le muovo. È andata. Il giorno dopo è stato il giorno del dolore, ancora e più forte, ma anche della scoperta del motivo per cui i tossici si drogano: la droga è bella. Soprattutto quanto l’infermiera dopo che mi hanno tolto i drenaggi che sembra si siano aggrappati direttamente al fegato, dopo che mi hanno sballottata per fare la lastra di controllo quando esplode il dolore anche se solo mi sfiorano, mi guarda e fa: “a questa bimba ora gli ci vole una bella puntura di morfina”. Sì, datemi tanta morfina, dopo giuro vado a San Patrignano. Un bucotto, l’ennesimo che vuoi che sia. Che bellezza, sentire il dolore cantare la ninna nanna alle gambe, pesanti, alle braccia, pesanti, e poi gli occhi, anche quelli pesano. Ciao.
Conto i pezzi che mi sfilano, e ogni volta che me ne tolgono uno parte una ola festante, voglio restare solo me, senza pezzi aggiunti, viti a parte che quelle oramai, mi spiega con soddisfazione il mio dottore preferito, gentile e professionale, devo tenere per sei mesi, massimo un anno. Come sei mesi un anno? Non erano al titanio? Non erano per sempre? Che ogni volta che passi sotto al metal detector all’aeroporto suona e devi spiegare che sono le placche… non era, no eh…. No.
Vanno tolte, funzionano come un gesso interno, una volta risistemato tutto vanno assolutamente tolte, potrebbero spezzarsi, ma è molto meglio, perché sono giovane. E sti cazzi. Entro un anno altro intervento, quindi. Mica me lo aspettavo. Ma intanto pensiamo all’ora.
Il tempo scorre, le visite sono tante, e le telefonate, e i messaggi, quanti! Cerco di rispondere a tutti, grata e felice di un’esplosione di affetto così forte che non mi aspettavo, è faticoso ma al tempo stesso mi carica di energia positiva, linfa preziosa in questo momento.
Il terzo giorno ci si alza, con il busto. Mi sento un fringuello sul campo vangato, stabile come una foglia secca sul crinale della Doganaccia. I pezzi ormai sono partiti tutti: drenaggi, catetere, accesso uno, accesso due, accesso tre. Ah mi sono venute le mestruazioni, ma quelle si sa sono state inventate per rompere le palle dunque quale momento migliore per adempiere al nobile scopo? Passa il primario (cazzo ma quello era il primario???? Temo di aver dato del tu anche a lui) che ribadisce la sua antipatia verso i cavalli raccontandomi che è appena arrivato un bambino di 28 mesi caduto da un cavallo con due vertebrine rotte, cavolo ma i genitori nel cervello che c’avevano per mettere un bambino così piccolo su un cavallo? Poi penso che è meglio se non penso, dato che la prima volta che ho messo Lapo su Corto Maltese (in braccio a me) aveva sì e no due mesi… Stai zitta vai che è meglio. Ho ripensato parecchio in questi giorni alle tante, tantissime “bischerate” fatte a cavallo negli anni, tutte andate sempre bene. In trent’anni che monto sono caduta 4 volte, di cui 2 negli ultimi 6 mesi, anzi una è caduta il cavallo quindi neanche conta… Mi sforzo di dare una lettura a questo, ma non riesco a trovarne una funzionate e plausibile, forse non è il mio periodo fortunato, forse sono troppo vecchia e non ho più vent’anni, forse…
Il primario conclude: domani si va a casa. Se sei sicuro te, che posso andare a casa che non sto neanche ritta, va bene anche a me per l’amordiddio.
“A casa si guarisce, all’ospedale si resta malati”. E su questo…
A casa si sta meglio, in effetti. Mi hanno noleggiato un bel letto come quello dell’ospedale, con tanto di sbarre ai lati, e lo hanno piazzato in salotto, dietro il divano. Non ci sta male dai. Le scale col cavolo che le facevo, con il piede rotto mi mettevo a sedere e salivo (e scendevo) di braccia, ora la vedo dura.
Abbiamo anche deciso di prendere una “badante” perché da sola riesco a fare assai meno della nonna bis che ha 94 anni (e che ha la sua badante anche lei).
Mica da tutti, a 39 anni (40 lo dico dal giorno del mio compleanno in poi che mancano ancora 4 mesi) averci la badante. Questo è l’anno dei quaranta, giusto, non me lo ero immaginato così devo dire.
A parte una simpatica mattinata di terrore alle prese con un problema che avevo sottovalutato (non sottovalutate mai l’importanza di far uscire quel che fate entrare…) tutto scorre. Lento, ma scorre, senza intoppi, con tante visite degli amici e chiamate, messaggi, mail… con la mia famiglia, il mio bimbo, il mio scemissimo cane Cirano che la notte dorme sulla poltrona davanti al mio letto e quando mi sveglio il suo respiro mi accompagna e mi culla. Solitamente delicato come un cammello in una cristalleria, sembra invece aver compreso benissimo che non mi deve sfiorare e si avvicina con quella camminata alla Celentano (il molleggiato per eccellenza ma lui arriva secondo) per farsi grattare le orecchie; oppure si sdraia ai miei piedi, in modo che lo possa sfiorare. La sua coda moto perpetuo scandisce per tutto il giorno un allegro inno alla vita. Sono anche uscita in giardino e la sensazione del sole e dell’aria sulla pelle è bellissima. Il dolore si sta rassegnando a fare i bagagli, anche se tenta di opporre resistenza ormai è sconfitto. La ferita è stata “desuturata” o meglio “sbullettata” come dico io, dato che quelli che avevo non erano punti ma graffette e pure di un certo calibro e in numero sufficiente a rilegare dispense per un’intera classe.
Adesso il tempo scorre clemente, finalmente non prendo più antidolorifici – detesto prendere medicine! – e piano piano cammino e mi muovo. Il pensiero va spesso alla Nina, alla mia cocca, cercando di ricordare e imparare da lei la pazienza, la fiducia, quel modo umile e assennato di affidarsi e di lasciare che il tempo passi e che le ferite si rimarginino…
La mia è a buon punto, oggi potrò fare una doccia. Intanto mi siedo in giardino, e guardo in su, tra le fronde del mio ulivo, mentre Cirano dà la caccia alle lucertole come se fosse una questione di vita o di morte, e penso che se anche lo guardi da un punto piccolo, il cielo di una mattina di giugno è sempre immenso, e bellissimo.