Ieri qualcuno mi ha chiesto “in che cosa sono laureata”, domanda che ormai, essendo passato diverso tempo, mi sento rivolgere raramente. In “lettere classiche, filologia latina per l’esattezza”. Ho risposto. E ci siamo messi a parlare di questa facoltà, o meglio indirizzo, perché la persona con cui stavo parlando l’aveva frequentata per qualche mese ma si era arresa di fronte allo scoglio – una montagna devo riconoscere – del latino e greco da studiare in ogni salsa e condimento possibile e immaginabile (nota: stiamo parlando, per me, di vent’anni fa, quindi vecchio ordinamento, ovvero agli esami di latino e greco ci andavo con il carretto tanti erano i libri – in lingua – che ci veniva richiesto di preparare).
Nell’arco di una breve e inaspettata conversazione mi sono fatta un bel giro nel passato, in quel periodo, che è stranamente volato, dell’università. E mi sono tornati a mente i miei amati studi, le ore passate a tradurre, con grande entusiasmo, come se fosse un bisogno; un qualcosa da cui è difficile staccarsi, mi sono resa conto quando (forse troppo presto e troppo all’improvviso) mi sono ritrovata catapultata nel mondo del lavoro.
La sera tornavo a casa stanca e confusa, e accarezzavo i miei vocabolari, i libri che mi avevano atteso increduli per tutto il giorno, senza spiegarsi perché d’improvviso li avessi messi da parte, interrompendo quella che fino a quel momento era stata una relazione felice. Quanto mi mancavano. Quasi da non farsene una ragione. Ho provato a mantenere i miei studenti (per tutto il periodo dell’università ho dato ripetizioni di latino e greco) ma presto ho dovuto abbandonare l’impresa.
Mi mancavano le corse in bici per andare a seguire le lezioni. Eravamo sempre pochi, fatta eccezione per alcune materie, bastavano le mani per contarci. Sanscrito, gaelico, storia della lingua (latina e greca), papirologia, filologia latina e greca. Ma tu sei matta, lo so che lo state pensando e in tanti me lo hanno detto. Ma io ero innamorata, perdutamente, dei miei studi. Una storia d’amore che non ha mai avuto un’esitazione, un momento di crisi, un ripensamento. Oddio la mia idea iniziale era quella di fare la veterinaria, ma quanto ad affrontare studi scientifici e bestie morenti dovetti riconoscere che non ero per nulla adatta.
Voglio concludere questo breve volo nel passato universitario con un ricordo che mi suscita sempre grande tenerezza. Quello del professor Arrighetti, che è stato il mio indimenticabile docente di Letteratura greca.
Ricordo perfettamente il suo corso (composto da tre esami, suddivisi in altrettanti colloqui), sulle Nuvole di Aristofane. Alla prima lezione, brusco e diretto com’era, cominciò prima con la lettura di un brano, e poi senza dire altro a sciorinare a tappeto tutte le varie lectiones, l’apparato critico e una serie precisa e impietosa di difficili parole e commenti. Tutta l’aula era gelata, senza fiato. Il pensiero di noi poveri studenti ovviamente era già all’esame, come avremmo fatto a studiare – e ricordare – tutta quella roba, per tutto il testo, e saperla ridire con scioltezza come se fossimo un vocabolario aperto? Impossibile. Qui si parte male ragazzi.
Mentre questo pensiero aleggiava tra i banchi degli studenti esterrefatti il professore terminò la sua recita plateale. Alzò gli occhi dal libro e mentre lo voltava verso la classe proclamò, con aria altrettanto seria:
“Oh bimbi belli, il primo che viene all’esame e ha imparato tutte queste bischerate a memoria lo boccio. Queste cose si scrivono accanto al testo e poi si leggono. Il cervello si usa per altro”.
E mostrò il suo libro, sul quale era appuntato meticolosamente con un lapis tutto quanto ci aveva recitato sull’apparato critico.
Non ho mai dimenticato la sua lezione, né la sua ironia e il suo modo di raccontarci la letteratura greca come se fosse una cosa naturale, come se stesse commentando una partita di calcio, o un avvenimento di vita quotidiana. Non ho mai dimenticato quell’amor letterarum che troppo presto mi sono trovata ad abbandonare, ma che resta sempre nel mio cuore.