Ieri siamo passati davanti alla stradina, dotata di sbarra, che portava, e che porta ancora, alla Collacchia. È un posto nel bosco sotto all’Abetone dove, quando eravamo bambini, andavamo a passare le giornate d’estate, per esempio il ferragosto, con un gruppo di amici.
Partivamo la mattina e restavamo tutta la giornata, accendendo il fuoco e preparando pranzi e spesso anche cene. Noi bambini eravamo liberi di fare cosa ci pareva, ovviamente con noi c’erano sempre i nostri cani, e il bosco è un luogo di gioco meraviglioso. Mi si stringe il cuore a pensare che tanti bambini oggi, la maggior parte temo, un bosco non sanno nemmeno cosa sia. E soprattutto non saprebbero che cosa fare, se non preoccuparsi di controllare se il cellulare prende e mettersi ad armeggiare con quello. E invece una giornata fra alberi, ruscelli, rocce, animali e natura è un dono unico. Direi più un diritto: dovrebbe essere diritto di ogni bambino salire sugli alberi, saltare fra le rocce di un ruscello.
I genitori poi non erano così apprensivi come lo siamo noi adesso: non ci stavano addosso, intimandoci di non salire qui o scendere lì, di non scivolare, di non allontanarci o di non sporcarci. In buona sostanza eravamo liberi, poche regole: uno non infastidire gli adulti e possibilmente non farsi male; una pacchia. Se qualcuno si sbucciava un ginocchio pazienza. Il momento più bello arrivava la sera, quando calava il buio e l’unica luce era quella del fuoco, e delle torce, se ci allontanavamo.
I grandi cantavano, mangiavano, bevevano, ridevano e scherzavano. Noi bimbi ci addentravamo un po’ nel bosco, in cui avevamo giocato tutto il giorno ma al buio tutto era diverso, sconosciuto. Io avevo paura, ho sempre avuto paura del buio. Anche i rumori erano diversi, si sentivano canti di uccelli strani, fruscii… incredibile quanto poco silenzioso sia un bosco di notte, se ti metti attenta e ascolti il silenzio non esiste. I bimbi, soprattutto i maschi, si divertivano a farmi paura o raccontare storie spaventose, che suscitavano in me fantasie e percezioni di presenze che mi facevano rabbrividire.
La sera, anche se era pieno agosto, era fresco, e ci infilavamo le felpe e le tute, io sono sempre stata freddolosa, infatti qui in montagna mi chiamano “la pianigiana”. Perché non sembra per nulla che la metà del mio sangue sia quello di una montanara. Non mi è mai piaciuto nemmeno fare le camminate, l’ho sempre odiato perché mi pesava il sedere che non ho mai avuto, ero uno scricciolo anche da bimba ma di camminare non ne avevo alcuna voglia.
Eppure è strano come ci siano sensazioni che ti penetrano e si nascondono sotto pelle, magari restano lì per anni, mentre fai tutt’altro, mentre non ci pensi neanche, a quanto hai giocato nel bosco da bambina. Ma arriva il giorno in cui tutto questo vissuto riaffiora, inaspettato, torna in superficie e ti si mostra di nuovo, svelandoti anzi desideri ed emozioni nuove.
Ho ricominciato ad apprezzare la montagna in questi ultimi anni. Principalmente da quando babbo mi ha regalato Cirano: lui non l’ha mai potuto portare a caccia, ma resta il fatto che è un cane che ha bisogno di tanto movimento. E felice come quando è libero nel bosco non l’ho mai visto. Così ho iniziato ad apprezzarlo anche io. Il verde, il silenzio, la fatica di mettere un piede dietro l’altro, ogni passo diverso. La gioia di vederlo correre felice, annusare, andare avanti, sparire, per poi precipitarsi a cercarmi con l’urgenza di un bimbo abbandonato. Non mi perde mai, tranne quando insegue una qualche preda, anche se si tratta sempre di pochi minuti, e sempre meno; lì sono io che devo pazientare e aspettarlo. Fidandomi del fatto che sappia ritrovarmi ogni volta. Così è sempre accaduto, mi siedo e lo aspetto, e ascolto il bosco; oppure continuo la mia strada e poi lui mi raggiunge.
Mi presero tanto in giro, babbo per primo, quando mi persi per arrivare al Lago Nero. Non è mica colpa mia, da bimba appunto camminare non mi piaceva e poi sono totalmente priva del senso di orientamento, quindi già il fatto che ci sono arrivata, seppur facendo strani giri, mi pare un gran successo. E dà un’immensa soddisfazione, tra l’altro. Adesso ogni volta che faccio un giro con Cirano nel bosco, sia anche qui nei dintorni di casa, dove giocavo con i cani da bimba, penso a quanti anni è rimasta sottopelle, la sensazione di benessere che danno gli alberi, guardarli è come contemplare un’opera d’arte vivente.
Non ce n’è uno uguale all’altro, di ciascuno la forma, il tronco, le foglie raccontano una storia, che è una storia di sopravvivenza, di trionfo della vita su tutto: sul gelo, sul caldo, sull’acqua e sul vento, sulle malattie, sul taglio operato dall’uomo. La vita sempre rinasce, e trova una via per andare avanti. Questo ci raccontano gli alberi, a saperli ascoltare, nella loro saggezza, ci insegnano ad amare la vita, sempre, e lasciare che sia lei a trovare la strada, a trovarci, anche quando ci sentiamo smarriti.