Il “Terrore”

Abbiamo sempre avuto cani da caccia, a parte un pastore tedesco. Poi io e il mio ex marito prendemmo – o meglio “ci capitò” – uno scarto di una cucciolata di boxer: la Nina. Che io chiamavo Cocca e babbo Sem, con quel suo modo di dare soprannomi a tutti, perfino agli animali, la “Franca”.

Perché diceva che era uguale a una signora di paese, di Pian degli Ontani, che di viso (muso) era precisa precisa. E con quell’intelligenza che hanno i cani lei rispondeva anche a quel nome, con il quale la chiamava solo lui: Franca.

Così come il mio bracco italiano, che babbo apostrofava “il più scemo di tutti i cani mai avuti”, devo dire con qualche ragione, rispondeva al nome di “Terrore”. Cirano “il terrore del fagiano”. Che era una evidente presa di giro, dato che il povero bracco, per sua sfortuna ma non per mio dispiacere, a caccia non ci è mai andato nemmeno mezza volta. Non sa proprio cosa sia la caccia, quel chiorbone, se non quella alle lucertole, alle mosche, ai gatti, galline, conigli, cavalli, asini, capre, mucche e pecore. Insomma rincorre tutto quel che si muove, ma di fagiani proprio, non credo ne abbia mai visto uno.

Eppure fu una delle sue idee brillanti, una delle sue “voglie”. La sentenza della malattia l’avevamo già avuta, la mia adorata Cocca a luglio ci aveva lasciati per una brutta malattia che se l’è portata via in fretta. Babbo, conoscendomi bene, sentenziò: “tanto te senza cane non ci duri”. E ci pensò lui, in effetti. Espresse il desiderio di tirar su e addestrare alla nobile (secondo lui) arte della caccia un bel bracco italiano, che era, a suo dire, un antico, saggio e fiero cacciatore, un suo grandissimo sogno. Come ne sia in realtà uscito un cane grullo come Cirano è un po’ un mistero, che mio padre ovviamente spiegava in modo semplice: “lo hai rincoglionito te con tutti i tuoi metodi e le tue moine”.

In realtà lo ha scelto lui, io – e mio marito allora – gli dicemmo soltanto va bene, lo teniamo noi che abbiamo il giardino così poi ci pensi tu a portarlo fuori e addestrarlo. Cosa non sarebbe disposta a fare una figlia, animalista e vegetariana, contraria alla caccia, per accontentare un padre, sperando di potergli dare un motivo di soddisfazione, di divertimeno e di gioia.

Cominciò così, un po’ come era stato per il cavallo, la ricerca “del cane giusto”. Unico veto che gli posi fu il tipo di allevamento: che fosse uno piccolo, di appassionati, che tengono i cani “come dico io” (che poi, chiacchiere a parte, era parecchio uguale a come diceva lui…). Così gira e cerca, prese parecchio sul serio e di petto la questione, individuò questo appassionato allevatore di Genova, Sestri per la precisione, e dopo aver ispezionato il posto me ne parlò molto bene, dicendo che mi sarebbe piaciuto il loro modo di tenere i cani.

Ad agosto – il 17 agosto 2013, per la precisione – era nata una bella cucciolata, da un padre campione italiano (per i cani da caccia vuol dire sia di bellezza che di lavoro). Ci tornò di nuovo, scelse il cucciolo, io volevo almeno una femmina ma no, non ci fu verso, il prescelto doveva essere un maschio, e poi andammo anche noi a vedere il posto e il pupattolo. Aveva scelto bene perché trovai l’allevamento, che coincideva, anzi coincide, con l’abitazione dell’allevatrice, molto bello, i cani felici e ben tenuti, con tanto spazio verde, liberi e in contatto con le persone e i proprietari, che hanno anche una bambina, molto fortunata, che si coccolava mamma e cuccioli con grande passione (vederla anzi nella cuccia con i canini mi ricordò subito come ero io da piccola).

Evvabbene, io sarei stata per un cane del canile, figuriamoci che mi faccio in quattro per trovare case agli orfanelli, e invece mi vado a ritrovare con un bellissimo cucciolo di bracco italiano con tanto di genealogia di avi cacciatori. Alle volte la vita gioca strani scherzi. A fine ottobre siamo tornati dunque a prenderci questo tordello, pesava già otto chili a due mesi, era tutto grinze e orecchie, frignone come un neonato e devastatore peggio di un unno manco il padre fosse stato Attila in carne e ossa invece che il pacifico Nerone.

Per lunghissimo tempo non abbiamo dormito (e se di notte osavi tentare di andare in bagno era finita: quello si svegliava ed era rumba fino alla mattina), ha disintegrato tutto, inclusi vestiti scarpe libri del mio figliolo che ci giocava né più né meno come fosse anche lui un bracco di tre mesi. Prima che capisse che i bisogni si fanno fuori non ne parliamo. Duro pinato che in confronto un cane duro pinato è niente. Ma buffo, buffo come non ho mai visto nessuna creatura. E felice: Cirano, anche adesso che ha 5 anni, scodinzola da quando apre gli occhi (anzi a volta anche a occhi chiusi) a quando si addormenta, e adesso si fa delle lunghissime ronfate. È un cane innamorato della vita, e vi assicuro che è una cosa contagiosa.

Le condizioni del mio babbo intanto non gli permettevano più le lunghe camminate che aveva sempre fatto per la caccia, e del resto, effettivamente, Cirano si è mostrato presto un cucciolo decisamente troppo vivace, decisamente troppo grosso forte e agitato. Per questo motivo io ho scelto per lui un metodo educativo che ovviamente mio padre non ha mai approvato: si chiama “cognitivo zooantropologico” con tanto di educatrici, libri, teorie e filosofie etologiche di raffinata provenienza. In poche, semplici parole: l’ho rincoglionito.

Certo, un modo parecchio diverso da quelli che utilizzano i cacciatori, questo va ammesso, ma a mio modestissimo avviso, e un po’ di cani me ne intendo, Cirano, ovvero il Terrore, ovvero “scemocane” come lo chiamo io, sarebbe lo stesso diventato quel che è: buono, socievole con tutti, cani inclusi, ma parecchio parecchio bischero. Ed è restato un gran frignone appiccicoso, totalmente privo di dignità: chissà come si vergognano i suoi avi bracchi, nobili e alteri cacciatori di questo bislacco e dinoccolato discendente. Però, per far le cose semplici, basta dare la colpa a me e ai miei metodi di “rincoglionimento cani seri”.

Ovviamente, come tutti i cani del resto, perché con gli animali aveva un dono particolare, anche Cirano stravedeva per mio padre: pietiva una carezza, un complimento, la sua attenzione; e gli si piazzava davanti nelle sue pose più fiere (perché è bellissimo, almeno questo va detto) quasi come a dimostrargli che in fondo qualcosa se lo poteva meritare, ma lui nulla. Una rapida carezza, e poco più, perché a rimbecillirlo con baci e moine bastavo già io. E gli animali non si baciano (questa teoria, a maggior ragione, vale anche per i cavalli, e io ovviamente rincoglionivo anche quelli).

Però secondo me, zitto zitto e senza mai ammetterlo, un pochino di bene gliene voleva e forse, chissà, provava anche un pizzico di invidia che fosse il primo cane da caccia a preferire me (ovvero la sua mamma, come dicevo per farlo arrabbiare ancora di più) a lui, ovvero il suo burbero “nonno” (così finiva di incavolarsi).

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