Mi sono sempre piaciuti, i faggi. Forse perché fanno parte della mia infanzia, che ho trascorso in buona parte in un piccolo paese dell’Appennino Toscano. A Pian degli Ontani ci ho passato tanto tempo, tutte le estati quando ero bambina e ragazzina, tutti i Natali, le Pasque, e festività varie. Io una vera montanare non lo sono mai stata. Diciamo anzi che non vedevo l’ora fosse estate per potermi godere il caldo e il mare e invece? E invece mi portavano in montagna e ciao.
Ai nostri tempi non usava consultare uno psicologo specializzato nell’età evolutiva per scegliere che cosa fosse più adatto per un bambino. Mare o montagna? Il mare fa bene, ma stanca e spesso agita, la montagna rilassa ma il bambino può annoiarsi o percepire una specie di accenno di isolamento sociale, in città del resto soffrirebbe non solo il caldo ma anche la percezione di non potersi permettere una vacanza, preludio di un possibile disagio sociale. Il viaggio di istruzione sempre utile, ma attenzione a non far perdere al bambino la dimensione ludica che gli spetta di diritto, trasformandoli in piccoli adulti interessati ad arte e musei prima del tempo. I campi solari vanno benissimo, purché abbiano una chiara finalità educativa e siano gestiti da personale competente e altamente formato, possibilmente laureato in scienze dell’educazione. … Col cavolo. Te andavi dove i tuoi genitori decidevano gli fosse più comodo piazzarti. Fine dell’analisi psico-socio-educativa pedagogica. E siccome noi avevamo la fortuna, comunque mi sento di chiamarla fortuna, di una casa in montagna, si stava lì con la nonna per la maggior parte delle vacanze, ovvero quasi tutte.
Non è che non esistesse il concetto di “noia”, esisteva eccome, solo forse lo si esprimeva meno perché tanto era comunque un qualcosa che te lo dovevi gestire da solo, agli adulti interessava il giusto. E così si imparava che la noia è solo un concetto relativo, e avere a disposizione tempo e boschi non era poi così male. Nel bosco si possono inventare un sacco di giochi, un albero può diventare qualsiasi cosa, anche un ramo, un sasso, un mucchio di foglie o il muschio subiscono trasformazioni mirabolanti per la mente di un bimbo.
Anche gironzolare con i cani era un’occupazione interessante perché li potevi trasformare in cosa ti pareva: cavalli, leoni, draghi, unicorni. Il bosco è un posto che stimola la fantasia, non so se gli psicologi dell’età evolutiva lo tengono in considerazione oggi questo fatto quando consigliano che cosa far fare ai bambini una volta finita la scuola.
Forse i bambini oggi non distinguono nemmeno un faggio da un castagno, una quercia da un albero da frutto, una felce da un sambuco. Leviamo il forse, non li distinguono. Magari a qualche campo solare di impronta naturalistica o botanica glielo spiegano, con dei disegni, dei libri o delle slides preparate in power-point. Però questo non è conoscere gli alberi. Per scoprire davvero la differenza devi provare a stare in un bosco di castagni, e poi in uno di faggi. Solo così si può capire, e neanche del tutto, la differenza.
Stamani ho fatto una lunga passeggiata con il mio cane in una delle faggete più belle della Montagna Pistoiese, che si trova nel tratto della strada forestale sopra Pian di Novello e ieri in un altro posto, anche quello bellissimo, vicino all’azienda I Taufi (sopra il Melo – Cutigliano), dove si possono ammirare faggi secolari che mi hanno lasciato a bocca aperta. Ho fatto il pieno di faggi. Ne ho visti centinaia, e non ce n’è uno uguale all’altro. A vedere tutti questi faggi mi sono tornati alla mente tanti ricordi di bambina, rivissuti e rimodellati sulla mia mente di adulta.
I faggi crescono alti e dritti, che sembrano fatti con il filo a piombo; il tronco d’argento, le foglie di un verde delicato, piccole, come corone di quei fusti altissimi, venti, anche trenta metri. A terra un tappeto dei mille colori della terra: arancio, marrone, giallo. Stare in un bosco di faggi è come trovarsi in una stanza che ha le pareti d’argento, il pavimento arancio e il cielo verde. I faggi lasciano spazio ai loro piedi, crescono alti, a cercare la luce, come se fossero sicuri della loro strada, come se le cose che accadono quaggiù non li riguardassero, anche se è dalla terra che le profonde radici succhiano la vita per portarla su, controcorrente, fino alla cima.
Avercele le idee chiare dei faggi, la loro schiena dritta, capaci di trovare la via, quella giusta, e di crescere senza piegarsi mai. Cammino in mezzo ai faggi e guardo il mio cane che annusa l’aria. Chissà se la percepisce anche lui, la saggezza del bosco, di sicuro è felice e questo è già molto. Lo sono anche io, un passo dopo l’altro nel silenzio, che poi non è vero che c’è silenzio, nel bosco, mai. Se ti fermi e ascolti c’è un gran vociare di uccelli, di foglie che si accarezzano, di insetti che rigano il cielo col loro ronzare. E mentre io penso a tutte queste belle cose e mi distraggo ad ascoltare il bosco, mi accorgo che non sento più i passi del mio cane che invece di quel bosco ha sentito il richiamo e si è dato alla fuga per rincorrere chissà chi, forse un capriolo. Lo chiamo, gli fischio, profano il “silenzio” urlando forte Ciranoooo! Mi guardo intorno, fermo il passo, tutti quei faggi, alti, muti, che osservano dall’alto e chissà da quanti anni se ne stanno lì, a crescere ogni giorno che quasi non sembra.
Mi siedo a guardarli, di fronte a me il verde più scuro delle felci. L’occhio passa attraverso tutti quei colori, e la luce del sole, che illumina ma non brucia, filtra prima attraverso le foglie alte dei faggi, poi scivola sul grigio dei tronchi – oro su argento – per poi far brillare il verde delle delle felci e infine si stende morbida sul letto di foglie arancioni. Che bellezza. Cirano intanto non torna, passano i minuti, ascolto il bosco, ma non odo i suoi passi, solo di tanto in tanto qualche abbaio in lontananza, più in basso. Minuti sospesi nel nulla.
Mi alzo e ritorno sui miei passi, peccato perché sarei voluta arrivare alla cima, non mi mancava molto ormai. Però sento che il cane è sceso a valle, e piano piano riprendo la strada verso il ritorno. Dopo poco ricompare il fuggitivo, con la lingua a terra e la faccia di chi l’ha fatta grossa ma non puoi capire come mi sono divertito, e poi scusa è il mio lavoro, inseguire una preda, eddai, ti prego perdonami non lo faccio più. Lo sgrido, e continuo a camminare ignorandolo, lui mi viene dietro con fare pentito (e stanchissimo).
I faggi ci guardano da lassù, dritti, antichi; come sei piccola, sembrano dirmi, sei un passaggio, un attimo e te ne andrai, mentre noi resteremo qui.
In effetti mi sento un’intrusa, tra quegli alberi, mi scuso per aver urlato e fischiato al mio cane, non avrei dovuto tanto tornava lo stesso, quello è il suo modo di vivere il bosco, e forse il suo è più giusto del mio, chissà, solo i faggi, dall’alto della loro saggezza, potrebbero dircelo. Intanto alleggerisco il passo, come quando entri in camera di un bimbo che dorme, per non svegliarlo.