La gioia che fa il dolore dell’amore

Io quelli che mi dicono un cane non lo riprenderò mai più perché si soffre troppo quando muoiono non li capisco. Cioè, non è che non capisco il dolore che si prova, quello l’ho presente benissimo.

Ho avuto tanti cani, enorme fortuna, nella mia vita, diciamo che quelli a cui sono stata più legata sono nove, ricordo distintamente la morte di quattro, due di loro hanno chiuso gli occhi fra le mie braccia. Un’esperienza forte, dolorosa, che segna, ma che rifarei centomila volte e che, se lo vorrà, permetterò a mio figlio di fare, quando ci lascerà, spero il più tardi possibile, il nostro amato cane.

Non sono matta, né masochista, bensì convinta che sia un momento di grande insegnamento: ti insegna che cos’è l’amore, e che cos’è la vita, nel suo senso più profondo. Capisci, nell’attimo in cui il tuo cane affida a te il suo ultimo respiro e il suo ultimo sguardo, quanto vale l’amore. Ti crolla il mondo addosso, il cuore si stringe, fino a far male fisicamente, come se te lo strizzassero in una morsa feroce; poi si dilata che te lo senti scoppiare nel petto. E daccapo. Per giorni. Per giorni e giorni quello sguardo non te lo levi di dosso, ti cerca, ti chiama, ti chiede. Ti chiede e non sai cosa rispondere. Non ci sono risposte di fronte alla morte, come del resto non ci sono di fronte alla vita, è questo, fra le tante, che i miei cani mi hanno insegnato. Accetta questo momento, come parte integrante della bellezza che è stata vivere insieme. Molti appunto dicono che il dolore per la perdita del proprio animale è talmente grande da essere paragonato a quello per la scomparsa di un familiare. Ed è vero, si dice senza vergogna, consapevoli per qualcuno apparirà come una bestemmia, paragonare la morte di una bestia con quella di un cristiano. Ognuno la pensi come vuole, personalmente non mi sono mai vergognata appunto a dire che la morte del proprio amico a quattro zampe è un vero e proprio lutto, per tutta la famiglia e come tale va gestito e trattato, soprattutto se coinvolge i bambini.

La prima morte con cui ho avuto a che fare fu quella di Cosetta, una pointer che è stata per me come una “mammina”, soffriva di crisi epilettiche che divennero sempre più frequenti fino a susseguirsi quasi senza interruzione, per lei non ci fu cura in grado di alleviare la sua sofferenza. Dopo poco il suo fiero compagno, Jonny, un pastore tedesco che invece mi aveva fatto da “babbo”, le andò dietro, era anziano, ma dopo la perdita della sua amica non sorrise mai più. Io però ero ancora piccola per poterli seguire fino dal veterinario, ricordo solo il momento in cui, prima l’una e poi l’altro, mio padre li caricò in macchina e me li fece salutare per l’ultima volta. Ricordo bene quel momento, la sensazione di impotenza, e di abbandono. Erano gli anni in cui volevo fare il veterinario, da grande, per noi provare mai più quel senso di impotenza. Mai più, mi dicevo, voglio trovarmi di fronte a un animale che sta male senza poter fare nulla.

La mia strada è stata poi un’altra, ma questo non mi ha impedito di seguire sempre e in prima linea le svariate e sfortunate vicende di Ares, un magnifico weimaraner, che è stato la nostra gioia per 12 anni. Superati tanti difficili ostacoli, come la leishmaniosi, una torsione di stomaco e un pneumatorace, il suo fegato e la sua milza lo condannarono a morte. Allora, per fortuna, ero sufficientemente grande per poter pretendere, ma nessuno a dire il vero aveva pensato di negarmelo, di accompagnarlo, insieme a mio padre, nel suo ultimo viaggio. Il primo cane morto tra le mie braccia, nonostante l’invito della veterinaria a uscire, se volevamo, per questo doloroso passaggio. Piangevamo tutti in silenzio, io lei e mio padre,  Ares  invece ci lasciò con la stessa saggezza ed eleganza con cui aveva sempre vissuto. Una lezione di vita che davvero raramente si può imparare.

Abbiamo sofferto tutti immensamente, per la sua perdita, perfino gli amici di famiglia che ancora, dopo tanti anni (è morto nel 2004) ancora lo ricordano. Questo sarebbe stato sufficiente per pronunciare la famosa sentenza: basta cani, troppo dolore. E in effetti qualche anno senza avere un vero e proprio cane di famiglia c’è stato. Mio padre continuava ad andare a caccia, allenando i cani di un amico allevatore, e quindi sono circolati per casa kurzhaar, tre per l’esattezza, un paio di spinoni e due bracchi italiani. Io avrei voluto tenerli tutti, lui solo il periodo di “lavoro”, per me era inspiegabile ovviamente, ma non avevo facoltà di decisione.

La ebbi invece quando si trattò di “tenere per qualche giorno” una cucciola di boxer, la più brutta della cucciolata e che nessuno aveva voluto per la precisione, di un’amica, che partiva per una vacanza e non sapeva proprio a chi lasciarla. La Nina da casa nostra non se n’è più andata, ci ha regalato i suoi sette meravigliosi anni ed è stata la compagna più straordinaria che potessi immaginare di avere per l’attesa, la nascita e la crescita di mio figlio. Non le sarò mai abbastanza grata.

Ha vissuto poco purtroppo, e non senza la sofferenza di ben tre complicati interventi, l’ultimo  inutile, ovvero non sufficiente a salvarla da una condanna a morte segnata. La scelta di non intraprendere il cammino sassoso della chemioterapia dopo l’operazione alla milza, esplosa per un emangiosarcoma, fu dura, decisa con il consulto e il conforto dei migliori veterinari che sono nel tempo diventati anche amici. Lo dico sempre: io l’umanità e la competenza che ho trovato nella maggior parte dei veterinari con cui ho avuto a che fare (quasi tutti, per essere onesta) raramente la riscontro nei medici che si occupano di noi umanoidi.

Sapevamo che avevamo poco tempo, da passare insieme, sei mesi, ci disse la specialista oncologa cui ci rivolgemmo, e così è stato, preciso come un orologio. Ce li siamo goduti, abbiamo fatto insieme tutto quello che più le piaceva, assaporando ogni giorno, noi con la consapevolezza che poteva essere l’ultimo, lei con la spensieratezza che ha un cane, per cui ogni attimo è un dono.

E così è arrivato, senza sorprese ma con immenso dolore, il momento di salutarci. L’ho prolungato, devo ammetterlo, di una notte, avevo bisogno di quella notte, che ho passato sdraiata a terra a fianco a lei, era la notte fra il 5 e il 6 luglio del 2013 e avevo bisogno di rassegnarmi all’idea di lasciarla andare, lei era pronta, io no. Il lento scorrere dei minuti, delle ore, era scandito dal suo respiro, accanto al mio, la guancia sul pavimento, a farsi sempre più affaticato.

Alle sei ho chiamato la veterinaria. Di nuovo rivivere quel momento. E non è che il fatto di esserci già passata aiuti in qualche modo, è in realtà sempre peggio. Il dolore, condiviso da tutta la famiglia, primo vero lutto per mio figlio di sei anni nato e cresciuto fino a quel momento con lei sempre al fianco, è stato enorme.

Il colpo è stato talmente duro che mi sono ammalata di polmonite, di luglio, e ho passato l’estate chiusa in casa, infarcita di punture di Rocefin e di una tristezza densa, che non mi lasciava mai, giorno e notte. Nulla poteva distogliere il pensiero dall’idea di non averla più al mio fianco. È soltanto un cane, lo so che qualcuno di voi, che magari sta leggendo queste righe solo per curiosità, lo starà pensando. Non mi importa. Da allora non è passato mai un solo giorno senza dedicarle un pensiero, anche se dopo pochi mesi è arrivato come un ciclone a spettinare le nostre esistenze un gigante dal cuore ancora più gigante, Cirano, nulla cambia del bene che le abbiamo voluto e di quello che è stata la sua presenza.

Certo, è vero, lei, come gli altri, come tutti, sono “soltanto” animali, ma con la loro vita, che dedicano interamente a noi e che ci affidano fino all’ultimo sguardo e all’ultimo respiro, ci insegnano che cos’è l’amore, che sarà sempre e comunque più forte e più grande del dolore che si prova quando non ci sono più.

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